20 Ottobre 2017

2011 / Condivisioni

Per il secondo anno consecutivo prosegue e si consolida la collaborazione tra il Centro Teatrale Santacristina e l’Accademia Nazionale d’Arte Drammatica “Silvio D’Amico”.
Dal 25 agosto al 18 settembre 2011, presso la sede del Centro Teatrale Santacristina, Luca Ronconi tiene un laboratorio per un gruppo di 16 attori, composto dagli allievi selezionati tra i diplomati in Accademia nell’a.a. 2010-2011 e da una scelta di ex allievi, che hanno già partecipato alle attività della scorsa stagione.
Si lavora su diversi testi, come Amore nello specchio di Giovan Battista Andreini, Pilade di Pier Paolo Pasolini e, in particolare, prosegue lo studio dell’opera pirandelliana Sei personaggi in cerca d’autore, incentrato quest’anno sul secondo atto.


Locandina/Programma
Centro Teatrale Santacristina, 15-18 settembre 2011

Scene da
Amor nello specchio di Giovan Battista Andreini
Pilade di Pier Paolo Pasolini
Sei personaggi in cerca d’autore di Luigi Pirandello

Con: Rita De Donato, Fabrizio Falco, Davide Gagliardini, Giulia Grattarola, Lucrezia Guidone, Dario Iubatti, Elisabetta Mandalari, Luca Mascolo, Elisabetta Misasi, Massimo Odierna, Alice Pagotto, Sara Putignano, Andrea Sorrentino, Remo Stella, Andrea Volpetti, Elias Zoccoli

assistente: Luca Bargagna (diplomato nel 2010 al Corso di regia)

I collaboratori: Claudia Di Giacomo(PAV), Luigi Laselva, Elisa Ragni, Maria Zinno

Materiali
Da Pirandello a Matrix di Anna Bandettini

Cosa significa recitare? Al lavoro con sedici giovani attori, Luca Ronconi mostra che si tratta di un processo complicato e insieme molto concreto: letture, prove, tentativi su come seguire le tracce del testo, come trasformarle con le tecniche della parola detta, come ripetere la battuta, come cercare l’intonazione giusta, come spezzare la linea della lettura grigia trovando contrappunti complessi e non necessariamente narrativi… In un lato della sala prove, lunga e rettangolare, completamente spoglia, seduto solo col testo e una matita a un tavolino che guarda il lungo tavolo dove gli attori prendono appunti e provano (attorno tanti curiosi, critici, amici, attori celebri venuti qui a vedere), il grande regista mostra come si può rompere quel modo omologato e standardizzato di stare in scena che assedia il teatro. «Prendi i tempi, devi essere più ossessiva che imperativa» insiste. «Esci da questa lamentosità: su, ripetiamo» dice martellando gli attori al di là di ogni dubbioso sconforto, portandoli giorno dopo giorno sempre più verso quel sottile equilibrio tra la condizione di saper analizzare un testo e il controllo della propria espressività. Questo itinerario creativo è da anni il momento centrale dell’attività del Centro Teatrale Santacristina, fondato e diretto da Luca Ronconi e Roberta Carlotto. Santa Cristina è un luogo doppio: una bella vallata, nascosta vicino Gubbio, in Umbria, aspra e fitta di boschi, difficile da raggiungere, e insieme un luogo di identità artistica profonda, dopo che nel 2002 le stalle dei vecchi casali sono state trasformate in sale prove e residenza per artisti che vogliono studiare, creare senza l’assillo di arrivare necessariamente a uno spettacolo (anche se qui ne sono nati di bellissimi) e fuori da regole mercantili di produzione. Una cosa anomala, un’esperienza insolita tra pedagogia e creatività che non ha paragoni in Europa.
Da un biennio le sessioni di lavoro di Santacristina privilegiano il rapporto con le nuove generazioni, grazie anche a una fervida collaborazione con l’Accademia d’Arte Drammatica “Silvio d’Amico” di Roma diretta da Lorenzo Salveti. E quest’anno sono stati appunto sedici gli attori che hanno “vissuto” dal 25 agosto al 18 settembre al Centro, nove appena usciti dalla scuola, sette diplomati nel 2010, già partecipanti al laboratorio dell’anno scorso, che ora portano avanti il percorso.
Tre i testi che hanno caratterizzato il lavoro di quest’anno, volutamente tutti italiani perché, dice Ronconi, «rispetto a un testo tradotto il lavoro sulla lingua è più preciso e chiaro». Soprattutto più diversificato rispetto alle diverse articolazioni del linguaggio drammaturgico. Come nel caso del Pilade di Pier Paolo Pasolini di cui il laboratorio ha affrontato solo alcune pagine. «Il testo di Pasolini è stato particolarmente interessante» spiega Ronconi «proprio dal punto di vista del lavoro sulla lingua. I giovani di oggi non hanno nessuna abitudine
con un “linguaggio pubblico” e con temi politici. Sono più proiettati sull’io. Quando devono rivolgersi a qualcuno per ottenere qualcosa, ossia immaginarsi un interlocutore non complice, hanno difficoltà. Dunque mi è sembrato un buon esercizio metterli alla prova con una forma espressiva a loro estranea».
Un altro tipo di sfida ha comportato il conturbante Amor nello specchio di Giovan Battista Andreini che Ronconi aveva già affrontato nell’87 proprio per un saggio dell’Accademia d’Arte Drammatica “Silvio d’Amico”, con l’esordiente Galatea Ranzi, e nel 2002 con Mariangela Melato e Manuela Mandracchia, anche qui a partire da un laboratorio di Santacristina. Il testo è una commedia del 1662, puro teatro barocco che dietro l’apparente leggerezza ha il gusto della minaccia, della sottile violenza. Dice il regista: «È una specie di enciclopedia di aberrazioni erotiche e anche di deviazioni psicologiche. Il cardine della commedia è un caso di narcisismo assoluto, una donna che è innamorata della propria immagine che vede allo specchio ed è chiusa a qualsiasi altra forma di contatto, amore e trasporto verso gli altri. Siamo di fronte a un’autoreferenzialità che appartiene anche al mondo giovanile di oggi. Mi sembrava interessante mettere a confronto dei giovani attori con qualcosa che conoscono e frequentano, ma in una chiave che ha venature di ironia insolite per loro».
Assai più complesso, sul piano recitativo come su quello rappresentativo, il discorso sui Sei personaggi in cerca d’autore che è da considerare un vero work in progress su Pirandello per Luca Ronconi: lo studio sul testo avviato proprio a Santa Cristina nella sessione 2010, ora arrivato ad analizzare il secondo atto, è destinato a diventare l’anno prossimo uno spettacolo vero che lascerà di stucco molti spettatori. Dice Ronconi: «Ho l’impressione che, mentre negli
Anni Cinquanta o Sessanta poteva essere naturale che il contesto di riferimento del testo fosse un certo tipo di teatro, quello del capocomico, del suggeritore, delle preoccupazioni di verosmiglianza, oggi quello sfondo non c’è più. Questo libera la commedia da ingombri e manierismi diventati insopportabili: penso a quel gioco del “teatro nel teatro” che è vecchio come il cucco, ma anche a tutto quel “ron ron” pseudoraziocinante tipicamente pirandelliano. Non sto dicendo che il testo è vecchio. Anzi, mi chiedo come possa una commedia che ha sulle spalle quasi cent’anni, funzionare ancora. Ma evidentemente l’interesse è un’altra cosa dalla metafora del teatro nel teatro: da quando la realtà virtuale
fa parte delle nostre vite, la contrapposizione tra quello che è reale e quello che è immaginario non esiste più, ha perso significato». Con un colpo di genio, dunque, Ronconi ha lavorato sui Sei personaggi come fossero figure imprigionate nella mente di qualcuno, Pirandello come fosse Matrix, con un risultato sorprendente a giudicare dai primi momenti del lavoro di scena. Il punto di partenza è lo spazio di Santa Cristina: la sala prove semplice e spoglia. «Senza più palcoscenico, appare evidente che quei personaggi vivono nella mente di chi li ha creati, sono rappresentazioni della mente che non possono avere nessun tipo di concretezza» continua Ronconi. «Come in Matrix sono ossessioni dell’autore, chimere che stanno là, in quel cervello. Ed è penoso sentirsi prigionieri del cervello degli altri. È qualcosa di cui non ti puoi liberare. Questo è il dramma di Pirandello».
Anche se lo spettacolo è ancora lontano, ogni prova a Santa Cristina ha tempi e concentrazione professionali: si lavora sei ore al giorno, o anche di più, in un clima sanamente conventuale. Si comincia la mattina, poi c’è la pausa tutti assieme nella grande sala da pranzo, poi di nuovo le prove. «C’è chi si compra una bella macchina o una barca. Io non avevo i soldi per comprarmi una barca, ma anche se li avessi avuti non l’avrei comprata, non è quello che mi piace» racconta Ronconi. «I miei interessi sono abbastanza circoscritti al lavoro del teatro, e quindi avendo
uno spazio a disposizione mi sono detto: “Ma perché non destinarlo a una cosa del genere?” Non è una scuola di formazione. Da qui, per esempio, sono passati anche professionisti. Semplicemente è un luogo dove chi fa il nostro lavoro può essere interessato a dedicare tempo per provare, per verificare qualche cosa. Poi, se vengono, possiamo fare anche delle produzioni, come effettivamente è accaduto». A Santa Cristina è nato Peccato che fosse puttana nel 2003; qui c’è stato il primo abbozzo di I beati anni del castigo che poi è andato in scena molti anni dopo al Piccolo Teatro con Elena Ghiaurov; qui hanno visto la luce Itaca e l’Antro delle Ninfe per il progetto “Odissea: doppio ritorno” presentato a Ferrara nel 2007 e Un altro Gabbiano, che nel 2009 era nato come uno studio su Ibsen; fino al più recente La Modestia di Spregelburd, che ha debuttato a Spoleto la scorsa estate.
Per i professionisti, ma soprattutto per i giovani freschi d’Accademia, sono occasioni di sperimentazione, che ridanno al teatro il suo valore contro la ridondanza mediatica che lo
appiattisce. «Io lo dico sempre: se vuoi sfuggire alla piattezza della recitazione tradizionale la devi conoscere alla perfezione. Ti liberi solamente da qualcosa che conosci» dice il regista, nemico di ogni sciatteria. «Ma è chiaro che per fare un buon attore non basta la tecnica. Ci vuole anche curiosità. Facciamo l’esempio di Pilade di Pasolini: chiaramente quel testo fa riferimento a un momento storico che non è quello del mito ma quello di Pasolini, l’immediato dopoguerra. Ora io non chiedo a ragazzi che hanno 22 anni se si ricordano del dopoguerra, ma certo sarebbe un vantaggio se, attingendo ai ricordi dei genitori o dei nonni, sapessero
di cosa si parla. Questa è la curiosità di cui parlo: non dico studi, ma attenzione a quello che accade fuori di te. Se uno non guarda gli altri, non cerca di appropriarsi dei modi di essere degli altri, difficilmente diventerà un bravo attore. Se il materiale è solamente quello che si tira fuori da se stessi…come dire, nessuno di noi è inesauribile. Gli altri, le persone, le situazioni, le storie, le vicende, sono il materiale che produce la ricchezza espressiva. E l’occasione di rinnovarci.L’attore che prende spunto solo da quello che ha vissuto rischia di restare legato solo a degli stereotipi».
Considerare il teatro come espressione di un bagaglio personale, prima ancora che un mestiere, è uno dei miracoli di Santa Cristina, reso possibile anche grazie a un ambiente favorevole alla creatività: non solo per la meraviglia del paesaggio che si vede fuori dall’edificio, tra i boschi e i sentieri intorno, ma perché qui tutto è predisposto alla cura interiore di sé: i libri della biblioteca, i film raccolti nella videoteca, le occasioni di incontro e le opportunità di isolamento nel corso delle quali riempire il proprio bagaglio. «Molto spesso i giovani attori che arrivano qui sono universitari, non si può dire che non abbiano una formazione completa. Ma la formazione non è solo quello che si è imparato, è soprattutto il frutto delle esperienze già fatte e la curiosità che si ha di farne altre. Quando mi chiedono qual è la formazione ideale per un giovane attore, mi sento a disagio. Già la parola “formazione” è un po’ pericolosa. “Formazione” a quale teatro? Per me la vera formazione è il fare: lavorare con gli attori, condividere con loro delle esperienze, come facciamo qui a Santa Cristina. Esperienze attraverso le quali non so se si formano loro o se mi formo io».