20 Ottobre 2017

2004 / Scene di una notte d’estate

Corso di perfezionamento per attori e registi,
Tra le circa 600 domande, pervenute da ogni parte d’Italia, vengono selezionati 22 attori e 3 registi oltre a 4 attori e a 5 registi uditori.
Dal 7 giugno al 25 luglio 2004 il corso si svolge presso il Teatro La Sapienza di Perugia e il Teatro Comunale di Gubbio, sedi anche delle due giornate conclusive aperte al pubblico.
Partecipano al corso in qualità di docenti Alessandro Baricco, Riccardo Bini, Roberto Biselli, Maria Consagra, Giovanni Crippa, Massimo De Francovich, Declan Donnellan, Nadia Fusini, Guido Levi, Claudio Longhi, Mariangela Melato, Margherita Palli, Richard Peduzzi, Massimo Popolizio, Ludovica Ripa di Meana, Sergio Ruffini, Toni Servillo, Enzo Siciliano, Anna Torti.

Il corso è promosso dalla Regione Umbria e in collaborazione con il Consorzio Iter.


Locandina/Programma

PROGRAMMA
Gubbio, Teatro Comunale – 23 luglio 2004 
Perugia, Teatro La Sapienza – 25 luglio 2004

Scene di una notte d’estate 
Una giornata con la scuola di perfezionamento per registi e attori 
Diretta da Luca Ronconi

Gli attori 
Marco Bocciolini, Andrea Bosca, Luca Carboni, Ugo Carlini, Francesca Ciocchetti, Pasquale Di Filippo, Raffaele Esposito, Andrea Fazzari, Francesco Guidi, Diana Höbel, Alessandro Loi, Marianna Masciolini, Stefano Eros Macchi, Tommaso Minnitti, Stefano Moretti, Alberto Onofrietti, Irene Petris, Giorgia Porchetti, Alessio Maria Romano, Olga Rossi, Roberta Rovelli, Marina Saraceno, Francesco Scianna, Silvia Soncini, Simone Toni, Greta Zamparini 

I registi 
Margherita Baldoni, Laura Bombonato, Giulio Costa, Sandro Mabellini, Enrico Petronio, Carmelo Rifici, Paolo Rota, Francesco Sala

Con la collaborazione di Maria Consagra 

Luci a cura di Guido Levi e Luca Bronzo
Cura e organizzazione Claudia Di Giacomo (PAV) e Giovanni Papotto 

Responsabile del progetto Roberta Carlotto

 

LOCANDINA
PRIMA PARTE

L’abominevole donna delle nevi di J. Rodolfo Wilcock

Regia di Francesco Sala
(atto I: Prologo, scene I, II, VII, VIII; atto II: scene X, XII)
Con Luca Carboni, Pasquale Di Filippo, Marianna Masciolini, Stefano Moretti, Alessio Maria Romano, Olga Rossi, Alberto Onofrietti, Greta Zamparini

 

Un re in ascolto di Italo Calvino
Regia di Margherita Baldoni 
Con Andrea Fazzari, Diana Höbel, Alessandro Loi, Tommaso Minniti, Alberto Onofrietti, Giorgia Porchetti, Alessio Maria Romano  

 

Un re in ascolto di Italo Calvino
Regia di Laura Bombonato
Con Marco Bocciolini, Raffaele Esposito, Francesco Guidi, Stefano Eros Macchi, Roberta Rovelli, Simone Toni 

 

Un re in ascolto di Italo Calvino
Regia di Giulio Costa 
Con Marco Bocciolini, Andrea Bosca, Luca Carboni, Ugo Carlini, Marianna Masciolini, Alberto Onofrietti, Marina Saraceno

 

Scanna di Davide Enia
(“Il battesimo”, pp. 1-19)
Regia di Sandro Mabellini
Con Francesco Scianna

 

Kouros di Ludovica Ripa di Meana
(scene I, II, III, V, VI, VII, IX, XI, XXIV, XXV, XXVII, XXVIII) 
Regia di Enrico Petronio
Con Andrea Bosca, Ugo Carlini, Francesca Ciocchetti, Andrea Fazzari, Giorgia Porchetti, Silvia Soncini 

 

La gloria di Gabriele d’Annunzio
(atto I)
Regia di Carmelo Rifici 
Con Alessandro Loi, Francesco Guidi, Stefano Eros Macchi, Tommaso Minniti, Stefano Moretti, Simone Toni 

 

La Santa di Antonio Moresco
(atto I)
Regia di Paola Rota
Con Francesca Ciocchetti, Pasquale Di Filippo, Diana Höbel, Marianna Masciolini, Irene Petris, Olga Rossi, Marina Saraceno, Silvia Soncini, Greta Zamparini

 

 

SECONDA PARTE

I beati anni del castigo di Fleur Jaeggy

Regia di Luca Ronconi
Con Francesca Ciocchetti, Diana Höbel, Marianna Masciolini, Irene Petris, Giorgia Porchetti, Roberta Rovelli, Olga Rossi, Marina Saraceno, Silvia Soncini, Greta Zamparini

 

Un re in ascolto di Italo Calvino
Regia di Luca Ronconi
Con Marco Bocciolini, Andrea Bosca, Luca Carboni, Ugo Carlini, Pasquale Di Filippo, Raffaele Esposito, Andrea Fazzari, Francesco Guidi, Alessandro Loi, Stefano Eros Macchi, Tommaso Minniti, Stefano Moretti, Alberto Onofrietti, Alessio Maria Romano, Roberta Rovelli, Francesco Scianna, Simone Toni

Materiali
Introduzione Gianfranco CapittaNota di Luca Ronconi sul centro teatrale SantacristinaTroilo e Cressida - Appunti sul testo di Luca Ronconi

Qualcuno dei giovani allievi registi lo dice con grande semplicità: «È stata una esperienza rara, una straordinaria possibilità: poter rubare a Ronconi la sua fase creativa, il modo tutto particolare di far diventare teatro delle parole, il rapporto che riesce a creare con gli attori». 
In effetti la prima cosa evidente a chi abbia visitato la scuola in questi due mesi, è stata la assoluta “originalità” di insegnare (ed apprendere) il teatro, semplicemente facendolo. Non è una battuta, ma rispetto alle “materie” o alle “esercitazioni” che uno si sarebbe potuto aspettare, a gruppi o tutti insieme, qui gli attori e i registi hanno lavorato sempre ad un testo da mettere in scena, in palcoscenico o in un altro spazio che fosse. Con una voglia di fare e recitare, che li ha tenuti legati per quarantacinque giorni ad un orario non leggero, dalle nove del mattino alle diciannove. Con pause brevissime, e articolate in modo che il grosso degli allievi fosse sempre occupato. E dando per di più, nel caso di Gubbio a luglio, un tocco colorato e vitale da campus artistico a tutta la parte bassa della città antica, quella appunto di san Martino attorno al teatro comunale. 
In una sorta di caleidoscopio in continuo movimento, sono passati gli ospiti prestigiosi dall’Italia e dall’estero, e gli attori più “anziani” (anche se magari appena tra i trenta e i quaranta), gli scenografi e gli altri registi, ma il perno vero, continuo e instancabile di tutta la scuola è stato Luca Ronconi, assistito e organizzato da Roberta Carlotto). 
È un grande puzzle quello dei titoli dei testi che si intrecciano e si richiamano: quelli del novecento realizzati dai giovani registi (e si va da D’Annunzio al nuovissimo Scanna di Davide Enia che debutterà solo alla prossima Biennale Teatro), e i due sempre contemporanei di Italo Calvino e di Fleur Jaeggy, su cui Ronconi ha lavorato in prima persona. E poi i due Shakespeare magistrali, sorta di sacre scritture che divengono fonte di tutta la teatralità del mondo: prima Il mercante di Venezia (che il regista aveva realizzato solo a Parigi per la Comédie Française) e poi a Gubbio Troilo e Cressida, che egli si appresta invece a creare nel megaprogetto olimpico torinese. 
Ma di quel puzzle che gli spettatori potranno ognuno ricomporre a propria misura a Gubbio e a Perugia nelle giornate finali, nella fase preparatoria, ovvero durante la scuola, non c’è traccia né tensione, né tanto meno il rischio di distrazioni o confusioni. C’è anzi una insolita e tangibile felicità di quel lavoro, anche del più duro lavoro fisico (quello cui serafica e dolce sovrintende inflessibile Maria Consagra), o quello ancor più pericoloso ed esposto in palcoscenico, all’inseguimento della creatività di Ronconi che in tempo reale aggiorna tecnica e pensiero, tenuti stretti nelle sue inarrivabili “interpretazioni”, svelate e instillate ai giovani attori come impeccabili “paralleli” da scuola orientale. E la scuola per attori, del resto, è sempre stata in cima ai suoi pensieri ogni volta che è arrivato a dirigere un teatro, da Torino a Roma al Piccolo milanese. Ma se gli si chiede se si può chiamare questa ”scuola Luca Ronconi”, un po’ come le scuole Montessori che assommano nel nome della fondatrice un metodo educativo particolare, lui si schermisce e finge di non capire: «Questa si chiama scuola Santa Cristina…». 
Dimagrito, agile e scattante, il regista dedica a queste dichiarazioni l’ora del pranzo, accontentandosi di un panino di sostentamento. Lui che ha avuto il chiodo fisso della formazione degli attori, qui ha chiamato anche un piccolo gruppo di allievi registi, mentre in Italia se la prima è stato sempre un nodo problematico, la formazione di questi ultimi è una sorta di buco nero. «Da noi la funzione di regista non è stata per lungo tempo neanche riconosciuta, anzi la sua figura è stata a lungo vista sì come un punto di arrivo, ma anche considerata un nemico pubblico. A differenza dei paesi anglosassoni, ad esempio, tutti (compresi gli stessi registi) preferiscono alla fine essere considerati artisti piuttosto che professionisti. In questo senso diventa difficile che la si consideri una disciplina che possa essere insegnata». E il discorso si allarga così all’intera esperienza di questi due mesi di scuola, comprendendo registi e attori. 
«Qui non abbiamo voluto fare una scuola per insegnare, e tanto meno io mi sentirei in grado di insegnare a fare il regista a un mio più giovane collega. Quando lavoro con dei giovani attori, faccio esattamente le stesse cose che con gli attori più maturi, tenendo conto solo che sono più giovani e più inesperti. Così qui faccio il mio lavoro di regista, e non un lavoro pedagogico. I giovani registi che hanno bussato a questa casa, hanno solo l’opportunità di fare una piccola esperienza con dei giovani attori». 
È un understatement senza ipocrisie quello di Ronconi, coerente con la vita, di fatto  spartana, che tutti assieme hanno condotto in queste settimane. Adeguandosi anche a fare i giochi di ruolo in palcoscenico quando Declan Donnellan per raccontare Shakespeare ha voluto far giocare tutti “all’assassino”. E anche se poi la presenza di scenografi di livello europeo, o le tecnologie mirabolanti di illuminotecnica che vengono mostrate da Guido Levi, riportano a un discorso teatrale molto forte ed evoluto, pure se veste l’abito informale della semplicità. «Tutto è comunque basato sullo scambio d’esperienze. In questo senso, pensando ai registi giovani che sono normalmente costretti a navigare in un bacino molto ristretto di strumenti, quando avessero la rara occasione di navigare in un mare più ampio, non ci si ritroverebbero. Allora più che di insegnamenti, qui noi vogliamo dotarli di maggiori strumenti di navigazione, per una loro attività futura di maggior respiro». E pudicamente, senza far nomi, cita casi accaduti a giovani di talento abituati a lavorare in ristrettezze, che si sono rivelati piuttosto sprovveduti quando hanno potuto attingere a mezzi finanziari maggiori. 
La messa in comune di strumenti e patrimoni in una condivisione di tempi e mezzi non è molto diffusa da noi: l’ultima esperienza illustre di campus di livello in Italia è stata forse quella dei corsi di semiologia di Umberto Eco a Urbino, tanti anni fa. In questo senso questa scuola costituisce una vera novità. Disseminata a sua volta di altre novità. Come il fatto che tra i docenti figurino altre generazioni di attori formatisi o affermatisi con Ronconi, come Mariangela Melato e Massimo De Francovich, Massimo Popolizio e Giovanni Crippa e Riccardo Bini. Mentre come “uditori” tra gli allievi siedono, per scelta volontaria, attori giovani ma già affermati e importanti sulla scena italiana. Insomma una sorta di democrazia allargata dello spettacolo, organizzata per circoli concentrici eppure interattivi, che rischia di lambire l’utopia. 
Basta vederli tutti insieme a semicerchio sul palcoscenico, a scambiarsi le parti di Troilo e Cressida, un testo che per il suo giocare continuo sulla diversità e sui ruoli, sembra fatto apposta per un ensemble così composito. E dal quale Ronconi distilla, attraverso di loro, succhi tanto irresistibili quanto poco scontati. E nessuno si lamenta della fatica, e anche della ascetica controtendenza che li costringe all’austero ed esclusivo  triangolo con testo e regista, senza possibilità di ricorrere a birignao patinati, amplificazioni roboanti e altre strumentazioni che sembrerebbero oggi obbligate per “fare spettacolo”. Lo sa bene Ronconi, mago sapiente che di spettacoli ne ha fatti già mille e tre, patriarca di tutte quelle generazioni diverse, ma impertinente e curioso come un bambino davanti ad ogni parola. «Perché, lavorando in questo modo, tutti sono contenti e stanno bene. È più bello vedere attorno trenta persone contente, piuttosto che illuse che attraverso certe tecniche potrebbero raggiungere risultati che nessuno chiede loro di ottenere». Così che da questo teatro improvvisamente povero e felice, torna a farsi strada il pensiero. Per gli attori e gli spettatori, prima che le luci si riaccendano, e anche la scuola, per quest’anno, sia finita. 
Gianfranco Capitta 
(tratto dal programma di sala)

Il teatro vuole che l’unica via per apprendere sia il fare, questo è il principio fondante della Scuola di Santacristina, una scuola a carattere empirico che pone le basi su due aspetti peculiari: l’affiancamento di allievi attori e allievi registi e la partecipazione di generazioni diverse. 
Intesa come scuola di perfezionamento, e aperta dunque a giovani che abbiano già frequentato accademie e avviato una carriera, la scuola non è concepita come un corso di recitazione e tantomeno è l’affermazione di un “metodo”. La Scuola di Santacristina è un luogo in cui fare esperienza di “ciò che non si può insegnare altro che nella pratica stessa”. 
Uno dei principi che ho sempre seguito nel mio percorso pedagogico e di ricerca è quello di offrire ai giovani un rapporto immediatamente professionale con il teatro, affiancandoli fin dalle prime esperienze a figure già preparate e, perché no, portandoli presto a misurarsi con le grandi produzioni e col pubblico. Oggi ancor di più credo sia importante nel teatro cercare di favorire il superamento delle barriere generazionali e di certe modalità produttive divenute troppo rigide e vincolanti. 
Qui non si insegna “come si fa una regia”, né si affermano un’estetica o una tecnica univoca dell’attore; non ho pensato alla fondazione di questa scuola come a un tentativo di perpetuare me stesso, quanto invece al desiderio mettermi, insieme al gruppo di validissimi collaboratori che hanno aderito, a disposizione di un gruppo di giovani attori e registi affinché possano proseguire il loro lavoro futuro con maggiore consapevolezza.

Attitudini fondamentali per un attore sono la capacità di lettura del testo e il controllo degli strumenti della propria espressività. Talvolta si riscontra, specialmente nelle giovani generazioni, una sorta di arroccamento ideologico che porta a contestare il valore della formazione. Ma parlare di identità professionale o di competenza, non significa rinunciare all’invenzione e alla creatività, significa insistere sull’importanza per l’attore di sottoporsi a un serio e scrupoloso apprendistato. 
Molte scuole seguono o addirittura impongono un metodo, altre ne inventano, altre ancora ne intrecciano più d’uno formulando sterili precetti. Non è il nostro caso. Sarà nostra preoccupazione primaria aiutare i giovani attori a trovare una loro autenticità scenica invitandoli ad analizzare e a scoprire i testi loro affidati. E più in generale si tratterà di distoglierli dalla tipica vocazione dell’attore italiano a portare in scena sempre e solo se stesso, educandoli a essere interpreti nel senso più pieno della parola e non maschere autoreferenziali. 
I ventidue attori selezionati lavoreranno con i registi allievi su testi contemporanei italiani sia drammaturgici che letterari – da D’Annunzio a Moresco per intenderci – e con me su due classici shakespeariani (uno dei quali destinato ad andare presto in scena, e non è escluso che alcuni dei ragazzi vengano poi coinvolti nella produzione). 
Comunque si voglia giudicare il mio lavoro, e non pretendo che venga visto sempre in maniera positiva, credo si possa incontestabilmente riconoscervi una solidità. Intendo per solidità l’aver insistito sulla formazione di un attore che abbia la capacità di durare nel tempo. In un contesto come il nostro, ricco di talenti ma intaccato da una fragilità di fondo, ritengo importante mettere a disposizione dei giovani gli strumenti necessari per combattere quel genere di precarietà artistica. E credo che non sia soltanto dando la possibilità di fare che si contribuisce alla crescita di nuove generazioni artistiche, ma dando la possibilità di fare in una prospettiva di solidità.

Molto spesso si pensa alla regia come a un lavoro da farsi a tavolino, o come il compimento di un progetto prestabilito, viceversa qui la si intende come un’attività che si determina giorno dopo giorno, in base alle condizioni reali in cui ci si trova a operare. 
Nell’arco di quarantacinque giorni gli allievi registi avranno una doppia occasione: potranno misurarsi ognuno su un proprio percorso, coinvolgendo gli allievi attori, e parallelamente seguire il lavoro che io stesso svolgerò con i ragazzi, affiancando così un’esperienza di autonomia all’osservazione di un processo, senza che quest’ultimo si ponga come assoluto ed esemplare. 
Il lavoro dato loro in autonomia è impostato su testi contemporanei da me scelti, come in un rapporto di commissione. Mi preme trasmettere l’idea che una delle funzioni del regista sia l’assunzione di una responsabilità nei riguardi della committenza (enti, pubblico) e degli attori. Credo che sia anche l’aspetto della commissione a garantire la libertà e credo sia indispensabile e attuale cercare di superare l’espressione di sé a tutti i costi. È luogo comune pensare all’autonomia come a una dimensione avulsa dal confronto, mentre a me non dispiace pensare che la vera libertà risieda proprio nell’esercizio di una relazione data. 
Io porrò su ogni testo loro commissionato non più che alcune ipotesi di possibili messe in scena e i registi stessi sceglieranno quali intraprendere. Successivamente mi limiterò a dare, dove necessario, un’opinione, un sostegno, individuando di volta in volta i punti di difficoltà, e indicando loro alcune delle vie per affrontare quelli che io chiamo gli “stati di necessità”. 
Proviamo a pensare alla regia come a un lavoro di sguardo e alla libertà come una questione di scelta; ma se uno sguardo è come l’occhio si pone su una cosa, ancora di più, uno sguardo è come una cosa si offre all’occhio: non potendo sostituirmi a un altro occhio né alla cosa, potrò solo invitare i ragazzi a scegliere una via e a prendersi la libertà di portarla avanti.

Nel mio lavoro di regista l’esperienza didattica si è sempre naturalmente affiancata all’attività di ricerca e ho spesso ritenuto doveroso intrecciare l’attività pedagogica col lavoro di palcoscenico, ossia coinvolgere i giovani nella fase di produzione. Il connubio è sempre risultato positivo per entrambe le parti in gioco: positivo per gli allievi che dal contatto diretto con l’esperienza in palcoscenico apprendono i segreti dell’arte nel suo stesso farsi, positivo per il teatro che dall’incontro con i giovani non può non ricevere importanti stimoli e sollecitazioni. Questo è un fatto per me fondamentale, diversamente non avrei motivo di avviare un processo così impegnativo. Dunque anche io mi aspetto qualcosa. Mi aspetto di ottenere un cambiamento, di sondare ciò che non conosco.

Scuola di Perfezionamento per Registi e Attori – Perugia, Gubbio – estate 2004

Due campi, quello greco e quello troiano, definiti da una linea di confine: questa l’impostazione da cui si è partiti per una prima lettura del dramma. E una situazione di fondo che lega fatalmente i destini dei personaggi che nei due campi si muovono: la guerra. Il trattamento dei due temi – la guerra e il confine – dichiarati già nel prologo, disegna uno scenario di scontro assoluto e irriducibile. Non solo tra due eserciti, ma tra due epoche storiche diverse, diversi e opposti valori, l’affermarsi di un’etica in armi sul suo contrario. Se da un lato Troia è il luogo di tutti i valori, in campo greco assistiamo alla loro costante mercificazione. 
Ai personaggi del dramma non è consentito attraversare la linea di confine tra i due eserciti, senza subire profonde trasformazioni. Il travalicare ha sempre conseguenze importanti sulla loro identità. Con alcune significative eccezioni, l’economia serrata delle qualità a loro attribuite richiede che ciascuno di loro perda e acquisti qualcosa di se nel passare da un campo all’altro. E si può aggiungere che la qualità dello scambio è anche ciò che li salva. Chi non porta nulla, come Cressida, subisce un inevitabile perdita di identità. 
E’ in questo contesto di guerra per l’identità che si inserisce la vicenda erotica di Troilo e Cressida, e da quella non può prescindere. 
Da un punto di vista interpretativo, partiamo dal presupposto che l’idea stereotipata e precostituita dell’eroe greco, per cui  facilmente immaginiamo che siano Achille ed Ettore a fare la guerra di Troia, è assai pericolosa. Un’idea che mi pare più interessante è di farne dei personaggi acerbi. La cosa difficile sarà di riuscire a conferire a dei personaggi che consideriamo eroici una fisicità abbastanza giovanile, mentre di norma li immaginiamo più pesanti. 
Il rapporto fra il personaggio e la guerra. I personaggi e l’evento possono stare sullo stesso livello, o l’evento può essere più grande dei personaggi. Mi chiedo cosa succede se la guerra di Troia è l’evento in cui si impigliano gli eroi greci, e quindi l’evento è più forte – trascende e travalica – le singole figure che lo costituiscono. 
Questo può valere sia per l’aspetto bellico che per quello erotico. Da un lato Troilo-Cressida-Pandaro che si impigliano nell’esperienza amorosa, dall’altro tutti gli altri personaggi (escluso Tersite) che sono più piccoli della guerra. Ed in questo senso siamo lontani dall’Iliade in cui è la statura dei personaggi che determina il livello dell’evento. 
Il tono parodistico dell’opera è nozione comune. In questo caso non escludo che si possa fare ricorso alla parodia ma non come fine in se, ma come mezzo per raggiungere altro (ad es. l’inesistenza di un fatto e non la sua presa in giro, l’inadeguatezza e non un espediente per provocare divertimento). Il senso della parodia nasce non dall’intenzione di fare una caricatura dei personaggi omerici, ma dalla sensazione che in questa versione di Shakespeare l’evento eccede la statura dei personaggi. In altre parole, gli eroi sono inadeguati alla situazione in cui si trovano. Accolto questo principio, il rischio di una facile parodia è scongiurato. 

 

 

Troilo e Pandaro (I,i)
Cominciare a lavorare sull’ipotesi che Troilo e Cressida non si siano visti prima. Al contrario, immaginare che sia Pandaro l’artefice totale della loro vicenda. 
L’attacco di Troilo – che significa, io mi strappo la divisa e non vado a combattere perché ho una battaglia nel cuore – ha una radice fortemente retorica e non reale. Bisogna fare qualcosa per uscire da questo schema retorico, petrarchesco, letterario dell’inizio; e da quello proverbiale dello scambio che segue.
Forse si tratta più di un rifiuto del momento bellico, che non una ragione pretestuosa. E’ chiaro che qui Pandaro risponde alle parole di Troilo, ma a noi non deve sembrare che la ragione sia quella. 
Ipotesi. Si può provare ad esempio a recitare i primi scambi tra Troilo e Pandaro in modo non interlocutorio. In questo senso quindi si può immaginare che Troilo sia il tempo di guerra e Pandaro sia il tempo di pace. Pandaro infatti non prende mai in considerazione i segnali della guerra (squilli di tromba, i morti che arrivano, etc.) come se ne fosse strutturalmente estraneo. Uno per cui la guerra è completamente lontana. 
Conquistare la libertà delle parole per uscire dalla retorica ed anzi usarla come arma al proprio servizio. 
Il tono di Pandaro è secco, enigmatico, singolare. 
Immaginare l’oriente profondo di buona parte del dramma, specie in rapporto ai personaggi femminili (Cressida, Cassandra, Andromaca, Elena). In particolare il tratteggio del personaggio di Cressida non segue modelli occidentali settecenteschi, «la damigella», «la damina», etc. Se non altro perché non ci sarebbe bisogno di un intermediario per intercettare la sua attenzione. Anzi ci aiuta se immaginiamo l’orientalità di Cressida nel senso di una figura velata e nascosta alla vista pubblica, dalla bellezza narrata e immaginata, non esposta e non giocata. Quando Troilo si riferisce alla bellezza di Cressida, non bisogna immaginare una familiarità di sguardi e incontri, come se fosse successo tutto prima dell’inizio della commedia. Si tratta in realtà di impressioni ricevute e assorbite per tramite di Pandaro, che in questo senso diventa il mediatore/mezzano assoluto, non solo dei desideri ma anche dell’immaginario altrui. Pandaro contribuisce a dare forma e direzione al desiderio di Troilo, che fuori delle immagini indotte da Pandaro, è cieco. 
Da un punto di vista strutturale, penso a questo dramma come assente di antefatto e prosecuzione. Si apre in un presente assoluto e lì campegggia. Questo vale in particolare per la parte bellica. Ma è interessante pensare a questa prospettiva anche per l’intreccio erotico, provando ad escludere che Troilo e Cressida abbiano avuto già prima dell’inizio del dramma uno scambio di battute imprecisato. Al contrario, trovo più stimolante pensare alle possibilità di uno svelamento protratto nel tempo e riempito dall’immaginazione. 
Per Troilo l’obiettivo non è il possesso ma la fedeltà, vale a dire realizzarsi fedele. Nel suo attacco di I,i Troilo sposta l’obiettivo della sua fedeltà dal grumo di valori patria/padre/re verso Cressida. In questo modo i due versi iniziali perdono il loro connotato retorico. Troilo sembra innamorato solo della sua idea di fedeltà. 

 

 

Pandaro e Cressida (I,ii) 
Da evitare che Cressida sia petulante. La petulanza di Cressida va risolta in enigmaticità. Immaginare i personaggi come portatori  delle convenzioni del teatro elisabettiano. Il desiderio tra Troilo e Cressida nasce all’interno della commedia. 

 

 

Il discorso di Agamennone (I, iii) 
L’attacco del discorso fa pensare ad un momento di stasi. Stranamente l’atmosfera è molto simile a quella del primo coro dell’Orestea di Eschilo. Mentre da un lato Achille e Patroclo prendono in giro tutti, dall’altro i principi sono riuniti senza sapere cosa fare. 
Il linguaggio è retorico e sarà in buona parte impossibile uscire dalla forma retorica del discorso. Ma iniziamo ad usare la forma retorica non come si fosse dei retori, ma come personaggi che fanno ricorso alla retorica come espediente. Quindi un uso autentico della retorica, quando il contenuto del discorso sarebbe troppo crudo o violento per essere espresso senza filtri. In questo senso un modo per essere sotto il rigo della guerra (in una lettura che prevede una dimensione acerba dei personaggi) è anche sentire di recitare sotto il rigo dell’età. L’immagine iniziale è quella di uno che cerca una giustificazione per lo stato fallimentare in cui tutti si trovano. Anche in questo caso si tratta di un Agamennone piccolo, e certamente più piccolo del ruolo che ha. 
Nell’interpretazione evitare la simulazione retorica. Utilizzare la retorica come espediente che mostra la verità, piuttosto che la simulazione. Pensare alla retorica come ad un appiglio di una reale situazione di difficoltà. E’ questa una delle forme di cinismo della commedia. 
Evitare in ogni modo di recitare l’effetto che si intende ottenere. 
L’idea dell’acerbità (inadeguatezza) si può applicare a quasi tutti i personaggi, con la grossa eccezione di Ulisse. 
Interessante parallelo fra Ulisse e Pandaro: il primo è il conduttore della situazione bellica come il secondo è il mezzano della vicenda amorosa. Se da un lato c’è identità tra Pandaro e Tersite, non va trascurata l’analogia tra Pandaro e Ulisse come artefici delle due storie parallele. 
In questo senso mi interessa esplorare e presentare la situazione in cui si è più giovani della storia che si racconta, piuttosto che presentare una storia raccontata da giovani. In questo senso dovrebbe emergere la sensazione che la storia che si racconta è perduta per sempre.
E’ importante che da questo discorso, già dal suo inizio, emerga forte un senso pervasivo di inadeguatezza. Di più, in tutto il campo greco con la sola eccezione di Ulisse, la cosa che deve emergere con chiarezza è l’inadeguatezza di tutti i personaggi rispetto alla situazione. 

 

 

Il discorso di Ulisse (I,iii)
Ulisse è un personaggio problematico perché consapevole del passaggio epocale e della distruzione dei valori di cui è testimone. In nessun modo è per» il riconciliatore di due mondi, tra passato e futuro. 
Il tono dell’attacco è sarcastico, diluendo velocemente il sarcasmo in tensione impulsiva e violenta. Il discorso di Ulisse non deve dare l’impressione di essere preparato nè apparire esplicativo. Considerando la costellazione di tutti i personaggi, tutti danno l’impressione di abitare in un buco nero, o catastrofe/terremoto universale. E’ quindi da decidere se Ulisse è l’unico che sceglie di abitare questo disordine universale, o è uno che rimpiange l’ordine precedente. Io tendo a pensare che sia più giusta la prima opzione. Ulisse abita la catastrofe e nel presentarla ad Agamennone ciò che dice è che nei sette anni della guerra di Troia tutto è cambiato nell’ordine dell’universo. Troia è ancora il tempo che i greci si sono lasciati alle spalle partendo per la guerra, un tempo di ordine e civiltà dove lo sconquasso non è ancora arrivato e che sentiamo destinato ad essere travolto. In questo senso si dà all’assedio di troia un significato storico e non solo aneddotico. Troia diventa una cittadella sacra, luogo di valori e amori, cinta d’assedio. Per farla cadere occorre un furore epocale che Ulisse gestisce manipolando tutti gli altri eroi greci.  
In questo senso Ulisse non può presentarsi come ossequente nel dire del disordine dell’universo. 

 

 

Enea ambasciatore tra i greci (I.iii)
In quest’atmosfera sfasciata di soldataglia greca impigrita e ferma compare un personaggio luminoso. Mentre Ettore è l’eroe nobile per eccellenza, Enea è «angelos», e così è presentato al suo ingresso nella tenda di Agamennone (vd. v. 236). Enea è il faro, la luce di Troia, così come Ettore ne rappresenta il valore. Non a caso Enea compare qui, a conclusione del discorso di Ulisse su ordine e gerarchia. Egli non riconosce – o fa finta di non riconoscere – Agamennone a capo dell’esercito greco. In altre parole il mancato riconoscimento  del sovrano allude a una struttura malata. In fondo è un disconoscimento, con tutte le implicazioni che ne derivano, inclusa quella di rendere la figura di Agamennone molto più piccola del suo interlocutore. 
Da questo incontro emerge l’accostamento di due mondi che non si possono parlare l’un l’altro. Diventa importante trovare delle strategie interpretative per articolare il tentativo di decifrazione reciproca. Si tratta di lingue, epoche, mondi diversi. Il passaggio del confine tra un mondo e l’altro è uno dei tratti principali della commedia. Enea è il solo personaggio che può attraversare il confine senza perdere o lasciare qualcosa, sorte che invece è riservata a ogni altro. Anche Ettore muta con l’attraversamento dei confini portando con se, ritornando a Troia dopo l’incontro con Aiace, un’inquietudine che prima non aveva.
Emerge un elemento di comicità nella progressiva irritazione di Agamennone per non essere riconosciuto. In più l’autorità che manifesta subito Agamennone di fronte ad Enea è una palese menzogna se rapportata al discorso sulla mancanza di gerarchia fatto da Ulisse poco prima.      
Vanno sottolineate la calma, la semplicità di Enea, che in questo apparire apollineo mette in evidenza la potenza distruttrice sua e dei suoi. I troiani, insomma, da angeli benigni ad angeli sterminatori. 
(V. 260 e seguenti) Continua con Enea la rappresentazione apollinea di un mondo antichissimo e ormai perduto per i Greci, governato da quell’ordine che Ulisse ha descritto come a soqquadro. Il contrasto con l’universo concettuale dei greci è stridente al massimo grado. 
Nel gioco di equilibri della commedia è importante notare come l’introduzione di Ettore venga fatta in un contesto in cui tutti lo scherniscono, mentre nelle scene successive la situazione si ribalta ed Ettore si impone come modello eroico di tutti e su tutti finisce per imporsi.

 

 

Tersite e Aiace (II,i)
Figura complessa, diversa da quella dell’Eneide, con una storia personale violenta di cui porta addosso i segni nelle mutilazioni. Quindi non è solo livore e nella sua animosità è il personaggio che esprime un giudizio sulla guerra. Anzi è il vero giudice della guerra. E soprattutto non è la stessa persona per tutti i personaggi greci. 
Tenere presente i salti temporali tra una scena e l’altra. Ad un inizio in cui vengono immaginati atti di guerra (i,i), segue un periodo di stasi descritta dall’atmosfera di riassetto generale del consiglio dei greci (I,iii). All’inizio del secondo atto dobbiamo immaginare Aiace impaziente per il prolungarsi dell’inattività nello scambio veloce di battute con Tersite. Il suo menare le mani è quello meccanico di un burattino, non parte da un’intenzione drammatica. Ciò non significa che la linea psicologica sotto la quale stanno tutti i personaggi maschili – greci e troiani, con maggiore o minore consapevolezza, ad eccezione di Pandaro e Tersite – non sia quella della disperazione, che nasce dalla sensazione in cui tutti si trovano sotto la soglia di controllo dell’evento. La percezione è quella di un cambiamento epocale completo e di strutture universali a soqquadro, in cui si pone la questione centrale dell’assalto della Grecia-occidente contro Troia-oriente. Per cui anche ciò che c’è di ridicolo e comico nel dramma è sempre rapportato a questa percezione delle cose. 
A proposito di questo scambio, mentre Aiace può essere greve Tersite non dovrebbe esserlo. In Tersite c’è sempre al fondo la consapevolezza di dire sempre la verità, senza animosità e senza l’intenzione di essere puramente offensivo. Anche in questo caso in cui denuncia l’inettitudine di Agamennone e la stupidità di Aiace. 
Sempre in quest’ottica emerge la distanza di questa elaborazione dei personaggi dall’originale omerico. In un contesto in cui non si pone in dubbio l’eroicità degli eroi, la figura di Tersite non può che essere semplicemente clownesca e meschina. Nel dramma di Shakespeare, in cui il concetto stesso di eroicità è messo in discussione e il cinismo della scrittura impregna ogni cosa, Tersite emerge come il campione della verità che non può fare a meno di sputare ad ogni battuta. In questo senso è compito di Tersite esprimere il giudizio più lucido sulla guerra in corso e sul disvalore degli eroi suoi protagonisti, ed in fondo su tutte le guerre, sintetizzato nell’equazione “guerra – lussuria”. Sotto il profilo interpretativo, bisogna trovare un espediente che renda le sue invettive lucide e meccaniche, togliendo quel tanto di aggressico che sembra essere la semplice risposta all’aggressività con cui è trattato da tutti.. 

 

 

Scena di famiglia a Troia (II,ii)
Tono intimo.
Diversa concezione del tempo fra il campo greco e quello troiano. Tra i Greci il tempo procede a scatti, è un tempo squinternato. A Troia il tempo è rituale, un’isola fuori dal tempo. 
Al v.67 si ribadisce la scelta di fedeltà per Troilo. 

 

 

Paride, Priamo e Ettore (II,ii)
(vv. 140 e seguenti) Notare che Paride è ferito. Ciò è in relazione con la scena tra Pandaro, Elena e Paride, in cui l’amore della coppia è il balsamo che cura la ferita di Paride. A sua volta l’armonia dell’amore tra i due va messa in relazione con l’armonia della musica, presente nella stessa scena e che non va risolta in puro accompagnamento aristocratico, ma in una variante dell’armonia risanatrice del mondo su cui Troia ancora si regge. L’entrata in scena di Pandaro sulle note della musica ha il valore di un’irruzione di un eros basso in un mondo erotico nobile e alto. In altre parole il passaggio di Elena dalla Grecia a Troia è speculare ed inverso a quello di Cressida in direzione contraria. La puttana di Menelao diventa l’idolo di Paride, mentre Cressida da pura promessa amorosa diventa puttana nel passare al campo greco. 
Per quanto riguarda Troilo, in questa scena in cui si tratta di difendere Elena, egli acquista una forza che non aveva ancora dimostrato nelle scene precedenti con Cressida. La generosità di Troilo in questa scena ha la stessa intensità della sensualità di Paride. Ciò avviene perché proprio in questa scena si parla di fedeltà. 

 

Cassandra (II,ii)
Da riportare nell’ambito familiare. Qui non è presentata come una sacerdotessa (vd. Orestea di Eschilo), ma come una che denota un’attenzione allo scorrere degli eventi storici. I riferimenti non sono all’ordine sovrannaturale, ma alla bellezza – di Troia e della civiltà che essa rappresenta.  Insomma un personaggio che pensa, e non giocato unicamente sulle grida e sulla follia irrazionale. Il suo ingresso non è un’interruzione forsennata ma uno sguardo toccante da chi soprattutto vede, e non solo prevede. 

 

 

Pandaro, Elena, Paride e la musica (III,i)
Oltre il fragile pretesto, la scena serve per mettere in relazione Pandaro con Elena, e quindi con Paride. La scena è costruita attorno alla musica, con cui i personaggi entrano in relazione in vario modo – assecondandola, interrompendola, etc. E’ probabile che in questa scena la musica abbia un valore di comunicazione erotica, invece che di accompagnamento musicale, specialmente considerando che le convenzioni del teatro elisabettiano avrebbero impedito di mostrare una scena erotica esplicita. Quindi immaginiamo che Pandaro, arrivato per comunicare l’assenza di Troilo alla cena della sera, finisca per farsi attrarre dalla carica erotica della scena che via via si immagina tra Paride ed Elena. Questa è una scena sul voyeurismo di Pandaro, in cui la musica interrotta vale a dire l’accordo amoroso infranto.  
La sorpresa della scena è che quando si apre la porta che svela ciò che Pandaro finora ha solo potuto immaginare, invece di un bordello appare un tempio. E questo tempio si apre proprio nel momento in cui Paride sta per essere accolto sessualmente da Elena. L’eros tra i due ha l’importante funzione di guarire Paride dalle ferite della guerra. In questa prospettiva Pandaro è annichilito da ciò che non si aspetta in nessun modo. Così facendo Pandaro interrompe la sacralità dell’eros. Tanto più perché il motivo per cui Troilo non potrà cenare con Paride la sera è dovuto al realizzarsi del programma di Pandaro, vale a dire l’accoppiamento di Troilo e Cressida. Giunto a palazzo si trova confrontato con un altro tipo di accoppiamento, di natura del tutto diversa. 
Questo introduce la complessità del personaggio di Elena, considerata un valore a Troia e una puttana tra i greci. Esiste in questo senso una geometria. Ma la complessità del personaggio impone che Elena non sia in effetti oggetto di piacere tra i troiani, ma piuttosto una trasfigurazione sacra dell’eros e in questo senso più simile a una divinità che a una donna. E’ presentata come un idolo. Tanto più forte quindi è l’impressione che questa visione ha su Pandaro, abituato ad essere mezzano d’amore ma impreparato di fronte a questa visione dell’eros. 
A rafforzare questa interpretazione si aggiunge la sensazione che l’interruzione di Pandaro sia tale per Paride ma non per Elena, imperturbabile nella sua superiorità. 

 

 

Troilo e Cressida (III,ii)
L’obiettivo di Troilo è la fedeltà, quello di Cressida è la disponibilità. 
I due giovani non sono evidentemente fatti l’uno per l’altra, e da questo punto di vista stanno all’opposto di Romeo e Giulietta (nel cui dramma invece tutto rinforza l’idea che siano fatti l’uno per l’altra). Tutti gli scambi di battute tra i due a partire dal loro primo incontro nel dramma non fanno che declinare questo assunto. Il punto di più eclatante divergenza tra i due sembra essere la diversa percezione dell’atto sessuale a cui tendono: per Troilo è l’inizio di un ménage coniugale, per Cressida è la concentrazione su un evento che considera unico.  
L’ambiguità, e l’ingenuità, dello scambio tra i due protagonisti della vicenda erotica del dramma gira attorno al livello di reciproca comprensione e consapevolezza delle proprie azioni. Io tendo a pensare che tra i due non ci sia una schermaglia amorosa in senso classico. Penso che Troilo e Cressida partano da premesse di assoluta sincerità, e che sia Cressida che via via si allontana da questa aderenza alla verità. Ma inizialmente non c’è manipolazione delle intenzioni altrui, ma il confuso esperimento delle proprie. Il progressivo e diverso aggiustamento della propria soglia di consapevolezza per i due personaggi finisce per dare forma a molti dei loro discorsi. 
Per il linguaggio che usano, e i suoi inevitabili echi petrarcheschi, tenere presente che si tratta di una verniciatura e non della matrice del loro discorso. E’ in fondo la forma che trova il loro discorso, in alcuni punti più che in altri. Anzi è bene che si senta che quel linguaggio non appartiene loro. Troilo, ad esempio, usa un linguaggio che suona non suo e usato per la prima volta, per di più gli echi stilistici sono alti pur non parlando in versi ma in prosa. L’effetto è quello di una citazione povera e vuota. In questo senso aiuta leggere le loro parole per il loro significato principale e concreto, resistendo al tentazione di staccarsene troppo facilmente. Le parole suonano così finte perché sono proprio Troilo e Cressida a non conoscere ancora il linguaggio dell’amore. Il tentativo è quello di giustificare in questo modo tutti i fraintendimenti che si verificano, tenendo presente che ognuna di queste scene fra i due deve condurre all’intervento risolutore di Pandaro.  
E’ da tenere presente che per Troilo la conquista di Cressida, e quindi l’appagamento sessuale, è sempre visto in funzione di qualcosa di cui l’eros è il preludio, e mai appagante in se. 

 

 

Ulisse, Achille e Patroclo (III,iii)
Lo sguardo di Ulisse è corrosivo su tutto. Sono portato a pensare che dovrebbe esprimere le sue ragioni e perseguire i suoi disegni sempre con passionalità, con un’intima disperazione, che lo tenga lontano da ogni immagine di diabolico e freddo tessitore di strategie. Il suo discorso deve rimanere violento di fondo, pur galleggiando sopra un tempo di qualità affatto diversa da quella del suo primo discorso nel primo atto. Qui le battute hanno un sapore sapienziale, di proverbi, e quindi senza tempo, che di conseguenza appare diluito e rallentato. Qui «tempo» ha anche il valore di «epoca». Il fondo è disincantato, disilluso, non accomodante ma vitalistico in senso negativo. Lo sfacelo del tempo e dell’epoca presenti non migliorano nella loro qualità per il fatto di essere riconosciuti come tali, non vengono superati. 
Per quanto riguarda Achille e Patroclo, deve emergere il rozzo e sguaiato squallore che li connota. 

 

 

Enea e Diomede (IV,i)
Questa è una di quelle scene che segnano il passaggio da una parte all’altra rispetto al “confine”, che possiamo immaginare come idea portante della rappresentazione. Questa è anche l’unica scena in cui è descritto un greco che passa dalla parte troiana. Sono più numerosi gli esempi di troiani che passano il confine verso il campo greco. 
Uno dei fili narrativi del dramma è la conseguenza sui personaggi al passaggio del confine tra i due campi. Ad ogni passaggio si perde o si acquista qualcosa. La qualità di ciò che si acquista o perde può essere sia positiva che negativa. Enea ambasciatore tra i greci porta luce nel campo greco. Nel caso di Diomede nel campo troiano si verifica un’inquietante forma di osmosi con la scena di Enea tra i Greci. 
Quello che si presenta come un’apparente scambio di formalità, è in realtà altro. Invece di una perdita di tempo potrebbe essere una perdita di luogo. Troia è il palcoscenico di una guerra selvaggia. Eppure trovandosi in città e rivolgendosi ad Enea, Diomede non trova altro da dire che – sorprendentemente – dichiararsi calmo. Sviluppare non l’aspetto formale e cavalleresco, ma uno smarrimento profondo. 
L’alterazione che subisce Diomede è di segno opposto a quella che subisce Cressida, che lui è venuto a prendere, al momento di passare in campo greco. 

 

Paride e Diomede (IV,i)
Il senso di smarrimento di se di Diomede svanisce nello scambio successivo con Paride a proposito del valore di Elena, che corrisponde anche all’uscita di Enea – portatore di luce dei troiani. Il discorso riporta il greco nella sua sfera mentale e culturale, e ha effetto di ricollocazione dei personaggi dopo lo slittamento precedente. 
Lo scambio sottolinea la differenza tra la nobiltà troiana e la barbarie intellettuale greca. Ed in più sviluppa ulteriormente il senso del confine, trattando del valore di Elena nei due campi definiti dalla linea di confine. 
L’intenzione di Paride nel chiedere a Diomede di Elena sta nel desiderio di riportare l’importanza della donna al centro dell’attenzione di tutti. Paride ne parla come ci si potrebbe riferire ad una divinità. Diomede risponde riferendosi a termini del commercio come costo e perdite, mentre da parte troiana ci si riferisce a concetti metafisici di valore e onore. Ciò che porta Diomede a parlare non è il disprezzo, ma l’origine del discorso sta nell’euforia della possibilità di insubordinazione (vd. discorso di Ulisse I,iii).
Per altro verso sono i codici d’onore dei due opposti schieramenti che vengono messi a confronto nelle parole di Diomede. In campo greco la massima tensione è in ordine al concetto di fama; in quello troiano al concetto di valore, riferito direttamente agli oggetti in esame.

 

 

 

Troilo e Cressida (IV,ii)
Affermare che la fedeltà è l’obiettivo di Troilo, non significa porlo al riparo da una serie di incertezze e ambiguità che da quell’assunto derivano, come ad esempio l’accettazione dell’allontanamento di Cressida dal campo troiano. In altre parole, nel perseguire il suo obiettivo Troilo risponde a se stesso e alla logica delle scelte che ha assunto. La fedeltà ha bisogno di essere messa alla prova. 
La percezione che i due amanti hanno dell’esperienza erotica sembra andare in direzioni opposte. Se per Troilo è il raggiungimento del desiderio, per Cressida è il risveglio del desiderio. L’equilibrio tra le due figure è molto delicato e va mantenuto in piedi con attenzione.  Forse un modo per farlo è alimentando il senso di fraintendimento costante fra i due, sotto una velatura di perversità. 

 

 

Diomede, Cressida, Troilo, Tersite (V,ii) – L’infedeltà di Cressida
(vv 107 e seguenti) La dichiarazione di Cressida è da prendersi come gioco, sfrondandolo di ogni facile accento drammatico. Qui Cressida non si sta giudicando negativamente, ma sta giocando con le possibilità inattese del desiderio che le si parano innanzi. 
Il commento di Tersite sale e interrompe il finale di Cressida come da una platea immaginaria e schiude una possibilità di teatro nel teatro. Tra i due è come un breve ma significativo scambio di battute.  
La reazione di Troilo è conseguentemente quella imperturbabile di chi ha assistito ad uno spettacolo. Ciò fornisce la distanza necessaria dall’emozione, e consente di creare la tensione. Rimane la fissità dello sguardo su una scena ormai vuota degli attori ma ancora riempita dai fantasmi di ciò che è appena avvenuto. E’ da sottolinearsi il tentativo di «registrazione» a cui si oppone l’ostinazione della speranza che possa smentire la testimonianza degli occhi. La tensione è molto alta, così come la posta in gioco, nelle battute di Troilo, ma si esprime in estrema lucidità e nulla ha del deliquio stereotipato del «tradito in amore». Per altro verso la fermezza di carattere, l’inamobilità, di Troilo è una delle caratteristiche che più lo distinguono dalla maggior parte degli altri personaggi che invece sono trascinati nello smottamento generale dei valori in cui si muovono. 
Ciò che colpisce nelle battute seguenti è la forma logica e serrata in cui si avvolge la pazzia che rischia di scatenarsi. Viene ulteriormente sviluppato il tema della lucidità di Troilo.
Un tratto da sviluppare qui, che ricorrerà in molti punti della rappresentazione del dramma, è la possibilità di uscire rapidamente dal personaggio per rivolgersi al pubblico della commedia, e – con la stessa tensione – rientrarvi. Ciò ha anche una funzione interpretativa, per evitare di cadere nel sentimento espresso dalle parole, secondo una strategia in cui il pubblico diventa contrappeso dell’attore oltre che interlocutore del personaggio. 
A proposito dell’equilibrio di tensione tra la rappresentazione e la vicenda rappresentata, in una prospettiva di messa in scena che lavori sulla sottolineatura e alternanza dei due piani, deve emergere un’assoluta parità di urgenza tra i due, e non il rafforzarsi di uno a scapito dell’altro. I personaggi sono in rapporto vitale con il pubblico da cui dipende non solo la credibilità della rappresentazione ma anche la meccanica dell’intreccio rappresentato. In altre parole si combattono due battaglie, di cui una è rappresentata e l’altra è la rappresentazione stessa. Le due dipendono di necessità l’una dall’altra.
Rimane da evidenziare che il discorso di Troilo sull’ambiguità della verità va visto anche nei termini del canone di rappresentazione elisabettiano, in cui l’ambiguità di un attore maschio che si rivolge al pubblico negli abiti femminili di Cressida, si è già appropriato di un’ambiguità che viene esibita in modo deflagrante. Il “parlare fuori” deve avere un effetto di frantumazione dell’identità e dei ruoli.