20 Ottobre 2017

2010 / Quattro pezzi non facili

Inizia la collaborazione tra il Centro Teatrale Santacristina e l’Accademia Nazionale d’Arte Drammatica Silvio D’Amico di Roma.
Dal 23 agosto al 12 settembre 2010, presso il Centro Teatrale Santacristina, Luca Ronconi tiene un laboratorio coi diciotto allievi diplomati nell’anno al corso di recitazione.
Durante il corso, gli allievi, si confrontano con scene tratte da testi differenti, quali Dialoghi dei morti di Luciano, Il Candelaio di Giordano Bruno e La teiera, racconto di Hans Christian Andersen.In particolare, Ronconi inizia con i ragazzi uno specifico studio triennale sui Sei personaggi in cerca d’autore, che porterà nel luglio 2012 all’allestimento dello spettacolo al Festival di Spoleto.


Locandina/Programma
Centro Teatrale Santacristina, 8-11 settembre 2010

Quattro pezzi non facili

Scene da: Candelaio di Giordano Bruno, Dialoghi dei morti di Luciano, Sei personaggi in cerca d’autore di Luigi Pirandello, La teiera di Hans Christian Andersen.

Con: Diletta Acquaviva, Viviana Altieri, Vincenzo D’Amato, Vera Dragone, Fabrizio Falco, Desy Gialuz, Lucrezia Guidone, Dario Iubatti, Elisabetta Mandalari, Luca Mascolo, Alessandro Meringolo, Giorgio Musumeci, Massimo Odierna, Marta Paganelli, Marco Palvetti, Maria Piccolo, Sara Putignano, Emanuele Venezia (allievi del III anno del corso di Recitazione)

assistente: Luca Bargagna (allievo del III anno del corso di Regia)

I collaboratori: Claudia Di Giacomo-PAV, Giampaolo Grassellini, Luigi Laselva, Elisa Ragni, Maria Zinno, Massimo Urbanelli

Candelaio di Giordano Bruno

antiprologo: Marco Palvetti; Fabrizio Falco; Giorgio Musumeci
atto II – Scena IV
Vittoria: Viviana Altieri; Vera Dragone
atto II – Scena V
Vittoria: Viviana Altieri; Vera Dragone
Sanguino: Luca Mascolo; Dario Iubatti; Alessandro Meringolo
Atto II – Scena VI
Lucia: Sara Putignano; Diletta Acquaviva
Barra: Emanuele Venezia; Fabrizio Falco
atto I – Scena XIII e atto IV– Scena IX
Marta: Maria Piccolo; Marta Paganelli; Elisabetta Mandalari
atto IV – Scena XII
Lucia: Diletta Acquaviva; Sara Putignano; Marta Paganelli; Elisabetta Mandalari; Maria Piccolo
Carubina: Vera Dragone; Desy Gialuz; Viviana Altieri; Lucrezia Guidone

 

Dialoghi dei morti di Luciano di Samosata

Dialogo n. 1
Diogene: Massimo Odierna
Polluce: Marco Palvetti
Dialogo n. 7
Menippo: Marco Palvetti
Tantalo: Vincenzo D’Amato
Dialogo n. 9
Menippo: Dario Iubatti
Tiresia: Giorgio Musumeci
Dialogo n. 28
Plutone: Alessandro Meringolo
Protesilao: Giorgio Musumeci
Persefone: Sara Putignano

 

Sei personaggi in cerca d’autore di Luigi Pirandello

Capocomico: Vincenzo D’Amato; Alessandro Meringolo
Suggeritore: Giorgio Musumeci; Marco Palvetti; Dario Iubatti
I attore: Alessandro Meringolo; Massimo Odierna; Luca Mascolo; Vincenzo D’Amato
II attore: Luca Mascolo; Emanuele Venezia; Sara Putignano; Massimo Odierna
III attore: Emanuele Venezia
Padre: Massimo Odierna; Luca Mascolo; Vincenzo D’Amato
Figlio: Dario Iubatti; Giorgio Musumeci; Marco Palvetti
Madre: Desy Gialuz; Sara Putignano; Maria Piccolo
Figliastra: Lucrezia Guidone; Vera Dragone; Viviana Altieri
Giovinetto: Fabrizio Falco
Bambina: Diletta Acquaviva
I attrice: Elisabetta Mandalari; Marta Paganelli

La teiera di Hans Christian Andersen

Elisabetta Mandalari; Lucrezia Guidone; Luca Mascolo; Fabrizio Falco

Materiali
Uno spazio di libertà di Roberta CarlottoIn cerca d'attore Lorenzo SalvetiUna palestra di sentimenti. Conversazione con Luca Ronconi di Gianfranco Capitta

Da quando è nato – era il 2002 – a oggi, ogni anno di vita del Centro Teatrale Santacristina ha coinciso con una nuova avventura, con una sperimentazione sul campo. Senza titoli accademici né riconoscimenti ufficiali, ma con la presenza costante e insostituibile di Luca Ronconi, abbiamo potuto produrre laboratori, corsi di approfondimento e anche spettacoli, alternando le attività di una scuola di specializzazione per giovani attori con la realizzazione di produzioni che mettevano a confronto alcuni interpreti già affermati con altri appena diplomati nelle scuole di teatro. Uno spazio di libertà, lo chiama Ronconi, dove è possibile lavorare a un progetto con modalità che altrove non sarebbe possibile mettere in pratica. È difficile immaginare un altro luogo come Santa Cristina: isolati, immersi nella quiete della campagna umbra, qui si lavora, si dorme, si mangia e si studia tutti assieme.
Una specie di college all’interno del quale è difficile stabilire una distanza tra le ore di lezione e quelle di vita comune, ma che ha un obiettivo costante nel cercare di mettere l’attore nella condizione di saper analizzare un testo e di controllare la propria espressività. Il corso di perfezionamento che si è svolto quest’estate a Santa Cristina è nato ragionando con il direttore dell’ Accademia Nazionale d’Arte Drammatica “Silvio D’Amico”, Lorenzo Salveti e ricordando l’importante presenza di Luca Ronconi negli anni passati in Accademia, prima come giovane allievo e poi come insegnante di tanti protagonisti della scena attuale. I 18 allievi del Corso di Recitazione 2007- 2010 sono i protagonisti del laboratorio raccontato nelle pagine che seguono, che li ha impegnati in un lavoro su “quattro pezzi non facili” (scene tratte da Sei personaggi in cerca d’autore di Pirandello, Dialoghi dei morti di Luciano, Candelaio di Giordano Bruno e La teiera, racconto di H.C. Andersen).
Assai articolati e diversi tra loro, secondo Ronconi questi testi possono aiutare ad approfondire il rapporto con la parola, anche se – aggiunge – «approfondire è un tuffo, non un’analisi: è buttarsi dentro qualcosa e non sbattere con la testa, una cosa rapida. Invece tutti mi chiedono di insegnare loro l’analisi del testo: l’analisi non si fa, l’analisi è il processo». Se osserviamo da vicino il percorso della Scuola di Ronconi dal primo anno a oggi, il concetto di “processo”, anche se non dichiarato, appare molto chiaro, a partire proprio dai testi che di volta in volta sono stati scelti, tra gli altri, per i giovani allievi. Il romanzo di Fleur Jaeggy I beati anni del castigo faceva parte del Saggio di fine corso del 2004 e quest’anno è diventato uno spettacolo con Elena Ghiaurov, andato in scena con successo il 20 ottobre al Piccolo di Milano. Le lezioni aperte presentate come attività della Scuola al Festival di Spoleto del 2008, un percorso attraverso le figure femminili di Ibsen, saranno alla base di un nuovo spettacolo con Mariangela Melato, previsto nel 2011 per il Teatro Stabile di Genova. E lo stesso si può dire per Il gabbiano di Cechov, che è andato in scena a Spoleto nel 2009 col titolo Un altro Gabbiano e faceva parte degli studi del Corso nell’edizione 2006.
Quest’anno, con i giovani attori dell’Accademia, Ronconi si è soffermato sul primo atto dei Sei personaggi di Pirandello. L’anno prossimo potrebbe continuare a lavorare sullo stesso testo, con altri allievi della “Silvio D’Amico”, per poi mettere a confronto, anno dopo anno, gli attori che si sono formati durante questo cammino.
D’accordo con Salveti, ci auguriamo dunque che quello con l’Accademia sia solo il primo di una serie di incontri, con l’obiettivo di offrire anche una riflessione per il futuro della formazione teatrale in Italia. Infine, un ringraziamento va a Claudia Di Giacomo, che condivide dall’inizio il nostro lavoro, e a Luigi Laselva, autore delle belle fotografie che ci accompagnano nella lettura di questo libretto.

Santa Cristina, 5 settembre 2010. Da qui non si vede una casa, una strada asfaltata… Solo boschi, alberi, solitudine. Immersi nella natura e nel silenzio, a lavorare tutto il giorno, dopo la cena in comune, quando cala la sera e Ronconi si congeda da loro, i ragazzi si isolano, ognuno in disparte. Chi studia, chi prova, chi si dispera, chi dice: «Allora in tre anni non ho capito niente! Cosa farò da grande? Che vita m’aspetta?» C’è un’enorme luna piena, in queste notti, sulla montagna di fronte. Impone una luce che ti fissa, chiara, puntuta e interrogativa. Così, quando tutti sono stanchi e chiudono i copioni, si dispongono le sedie in fila, sul patio, davanti alla luna e, per ore, di nuovo insieme, si continua a discutere interrogandosi sul senso, ultimo e vero, del proprio mestiere. Credo sia questa la cosa bella di questa esperienza: dei ragazzi che tra pochi giorni si diplomano, finiscono l’Accademia interrogandosi. Non vanno via con delle certezze, vanno via con una voglia di porsi domande maggiore di quando hanno iniziato il loro percorso. Dagli Anni Settanta, Luca Ronconi è stata una presenza costante e centrale nella vita dell’Accademia. Come è accaduto con Aldo Trionfo e tanti altri maestri, i suoi saggi, o semplicemente le sue lezioni, hanno avuto la funzione e il merito di costringere tutti noi a rimettere in discussione idee e prassi consolidate. Nessuno forse come Ronconi ha saputo, con tanta ostinazione, passione e millimetrica provocazione, richiamare l’attenzione degli allievi sulla necessità di definire un concetto “alto” di rappresentazione, intesa come ideazione e strutturazione di una “realtà” a sé stante, altra e diversa rispetto alla realtà del fatto quotidiano. La rappresentazione come “messa in forma” di materiali che possono sì provenire dall’osservazione del reale, ma che acquistano una loro “verità” solo nell’atto di formalizzarsi come linguaggio autonomo e specifico, che nulla ha a che vedere con le dinamiche spicce della vita di tutti i giorni. In un periodo in cui sempre di più si cede alla facile tentazione di confondere la verità del palcoscenico con quella dell’esistenza personale, insistere su questo aspetto del lavoro dell’interprete vuol dire porre con urgenza una questione nodale che attiene al senso e alla ragion d’essere del teatro e, in ultima analisi, alla sua stessa sopravvivenza. Ricordo che da ragazzo mi recai in uno studio di Cinecittà ad assistere alla rappresentazione della Centaura di Giovan Battista Andreini, un saggio dell’Accademia appunto, con la regia di Ronconi.
Lo spazio che ci accoglieva non era propriamente un teatro. Era un ampio edificio rettangolare, somigliava a un opificio. Inscritte nel rettangolo, erano state ricostruite in legno le strutture architettoniche di un teatro seicentesco: la cavea per il pubblico, il boccascena, tutto era dichiaratamente “finto”. La prima sensazione, entrando, era prodotta da un odore acre di legno appena lavorato e di resina, un odore concreto e riconoscibile, ma inaspettato, irreale, in quella circostanza, dal momento che non ci trovavamo in una falegnameria. Più verso il fondo, sul lato corto del rettangolo, erano disposti praticabili, macchine sceniche, fondali dipinti in monocromia, bellissimi ma non ostentati, ordinati solo in forza della loro funzionalità.
Mi sorpresi a pensare che quel luogo, al momento apparentemente vuoto, dovesse contenere in sé tutte le possibili storie che si possono raccontare e tutte le possibili parole che si possono pronunciare: come se fosse un “meccanismo” preesistente, lì da sempre, in attesa di mettersi in azione non appena quelle storie e quelle parole avessero trovato qualcuno disposto
a dar loro una forma in cui potersi materializzare. Cominciò lo spettacolo. Quando entrarono gli attori mi parve che entrassero non personaggi, ma “progetti” di personaggio, “destini” possibili cui gli attori avrebbero avuto il compito di dare forma e consistenza, scegliendo tra le mille opzioni disponibili.
Mi riaffiora alla mente questo ricordo ascoltando Luca parlare ai ragazzi del concetto di rappresentazione, e tra me rifletto sul modo corretto di metterlo in relazione con il concetto di immedesimazione. È l’eterno tema delle domande che tutti i giorni gli allievi si pongono e ci pongono.
Mi viene da concludere che, prima di ogni altra analisi, il tema di fondo da approfondire è la “funzione” che un attore assolve in quanto officiante di un rito laico, che consiste nello spogliarsi ogni sera della propria identità “vera” per assumere su di sé il compito di rappresentare la verità “finta” del proprio personaggio.
In questi giorni a Santa Cristina, tra gli altri testi, si studiano i Sei personaggi. Il taglio dell’esercizio che Luca propone ai giovani attori è sorprendente e finanche “crudele” nella sua assoluta pertinenza: i sei personaggi in cerca d’autore sono anche in cerca d’attore.
Non è semplicissimo arrivare alla Scuola di Teatro Santacristina. Lasciata la superstrada affollata di camion e di turisti, bisogna arrampicarsi per luoghi dai nomi suggestivi (da Casa del diavolo verso Alcatraz…) e poi avventurarsi per certi viottoli che il sole rende sospesi nel vuoto. Il rumore diminuisce, si affievolisce il senso dell’orientamento e bisogna procedere piano per chilometri per arrivare a quella casa bianca e longitudinale. Edifici diversi che si allungano, e un senso della realtà che si allontana.
Se ci si affaccia in una delle due grandi sale (che da una parte proseguono con un ampio living, la cucina, le stanze da letto, come celle di un convento dell’arte contemporanea), sembra di entrare direttamente in palcoscenico. I grandi pavimenti di legno non rinviano tanto a una palestra, se non una palestra di sentimenti. Un’esperienza fuori dalla norma e dalla routine è quella che ha preso vita in questo luogo, tra agosto e settembre 2010. Dopo tre anni trascorsi all’Accademia “Silvio D’Amico”, i 25 giovani partecipanti non si possono più considerare allievi, e alcuni di loro mostrano già capacità di notevole livello. Allora queste tre settimane intense e intensive, sono state una scuola di teatro o un corso di perfezionamento?
Luca Ronconi, con il suo solito understatement, minimizza: «Non è propriamente una scuola, perché tutti si sono diplomati già a giugno; per un perfezionamento tre settimane sarebbero poche; diciamo che si tratta di un “codicillo” d’esperienza. Se ne era cominciato a parlare dall’anno scorso quando lavoravamo a Spoleto. Lorenzo Salveti e Roberta Carlotto hanno costruito il programma pensandolo per questo spazio, un Centro dove sono contento di lavorare, e anche di vederlo vissuto da giovani».
In effetti non sembra una esperienza italiana, quanto piuttosto un campus estivo anglosassone. Le antiche stalle sulle colline di Gubbio costituiscono una cornice perfetta per questa esperienza, dove tutto quanto non sia voce teatrale suona attutito. E, sebbene non ci sia uno “spettacolo” da preparare, ragazzi e ragazze, quando non sono assiepati attorno al loro maestro per vedere chi in quel momento è protagonista della prova/lezione, se ne vanno in giro da soli ripetendo a memoria i loro testi. Troppo giovani per il birignao o per i movimenti plateali, se ti fermi a guardarli per un attimo s’interrompono imbarazzati, e fuggono verso il verde o dietro un angolo recondito.

La scuola ha sempre fatto parte del teatro secondo Luca Ronconi, ne è sempre stato un aspetto complementare, o anche indispensabile.
È vero: la prima volta che sono andato a tenere un corso all’Accademia (espressione che oggi mi fa sorridere) avevo 35 anni: una storia lunga e parallela ai miei spettacoli.

Quella stessa accademia “Silvio d’Amico”, del resto, Ronconi l’aveva frequentata da ragazzo, come allievo attore.
Ci sono entrato proprio da ragazzo, non avevo ancora 18 anni. All’epoca c’era ancora Silvio D’Amico, e poi Orazio Costa e Sergio Tofano, che oggi non ci sono più. Era una scuola molto diversa da come poi si sarebbe sviluppata nei decenni successivi.

Il mestiere di attore è uno di quelli che ha bisogno di essere trasmesso, e si deve apprendere da qualcuno che lo possieda, se si vuole praticarlo.
Che si debba apprendere, direi di sì, molto spesso a proprio rischio e pericolo. Quanto al trasmettere, sono contento che tu lo dica perché lo penso anch’io, ma ci sono molti altri che non condividono quest’affermazione.

All’Accademia Luca Ronconi si è formato ed è nato come attore: possedeva sicuramente un suo talento di interprete, e solo molti anni dopo è divenuto regista.
Neanche tantissimi: dopo nove o dieci anni. Mentre quell’esperienza d’attore si è conclusa ormai da molto tempo, pur essendo stata piuttosto intensa, almeno all’inizio. Poi io stesso ho rallentato, perché non mi sentivo troppo a mio agio sul palcoscenico. Non so quale sia stato il motivo, ma forse non mi piaceva e non mi trovavo bene nel teatro che si faceva allora. O forse c’è qualcosa nel mio carattere che rifugge dall’eccessiva esposizione sul palcoscenico. Non so bene, ma non sono stato neppure a chiedermi troppo il perché.

Come regista, invece, si possono creare interi mondi…
Come regista m’interessa molto il lavoro con gli attori. Anche quando facevo io l’attore (e qualche volta l’ho fatto in maniera non “spregevole”), ero sempre interessato ai problemi di recitazione o di interpretazione, o all’approfondimento del testo, o alla ricognizione di quelle che possono essere le ragioni del carattere del personaggio, piuttosto che non all’effetto di tutto ciò sul pubblico. Forse è questo che mi ha fatto trovare più a mio agio a lavorare con un “pubblico” di attori, piuttosto che salire io sul palcoscenico e mostrarmi al pubblico.

È evidente, a questo punto, che per un regista è importante essere nato come attore.
Non è detto, perché ci sono grandissimi registi che non hanno mai fatto una vera pratica d’attore; però è vero che sperimentare sulla mia pelle quali possano essere i meccanismi, le difficoltà, le resistenze, i piaceri e i dispiaceri dell’essere in scena, mi è utile per lavorare con la maggior parte degli attori.

Che genere di rapporto si è instaurato con gli allievi dell’accademia con i quali stai lavorando?
A loro ho dichiarato subito di non possedere né una didattica né un metodo. Cerco di rapportarmi singolarmente con ciascuno di loro, perché ognuno è un individuo a sé. Avere un metodo presuppone che chi lo applica bene ottenga risultati eccellenti, in caso contrario sarebbe un metodo “deficitario”. Ma questo non succede mai, con nessun metodo. Cerco, piuttosto, di capire il più rapidamente possibile quali sono le potenzialità, e anche le resistenze degli allievi, e di aiutarli a liberarsi gradualmente, senza troppi schemi, pregiudizi, preconcetti ideologici o di gusto. Secondo quelle che sono le loro effettive potenzialità.

La scuola in generale è cambiata radicalmente in questi anni. Sono cambiati anche i giovani che vogliono imparare a diventare attori?
Oggi la definizione di attore è assolutamente più approssimativa o estensiva di quanto non fosse in passato. Oggi esistono tante forme diversificate di teatro (ed è bene che esistano), che richiedono ciascuna tecniche e approcci diversi. Tutti sono attori: è attore chi fa una fiction televisiva, quasi totalmente priva di linguaggio parlato e dove tutto quanto è azione, così come è attore uno che racconta qualche cosa. Sono tipologie del tutto diverse: rispetto a qualche decennio fa, senza correre il rischio della specializzazione, è assolutamente necessario che un attore sappia a quale tipo di teatro si vuole indirizzare, e quanto sia adatto a quel determinato indirizzo.

A proposito dell’evoluzione di quest’ultimo secolo, si sente dire ogni tanto, soprattutto tra le generazioni teatrali più giovani, che la regia è morta. anche se è un mestiere recente, una “invenzione” sviluppatasi in poco più di cent’anni.
Se è morta, io dovrei essere un superstite. Quella del regista non è una figura, ma una pratica. Se uno riesce a farsela da solo, benissimo. Se non ci riesce, o ci riesce male, è meglio che abbia qualcuno che lo guidi. L’idea che sicuramente è tramontata è quella del regista demiurgo, ma è un’idea che non mi è mai appartenuta. Il teatro, poi, è fatto di tante cose: di attori, di spazi, di testi; i testi possono essere opere letterarie di uno scrittore, e possono essere copioni scrittida un commediografo. E tutte queste cose hanno certamente bisogno di una serie di mediazioni…

Parliamo dell’esperienza concreta di questa scuola a Santacristina: tu avevi scelto in anticipo alcuni testi su cui lavorare insieme ai ragazzi. come si sono rivelati, quei testi, alla prova di questi giovani attori?
Qualcuno più difficile e qualcuno meno.

Diversamente da come avevi previsto? O sapevi già come avrebbero funzionato?
Partiamo da cosa ho scelto: alcuni brani del Candelaio, una novella di Andersen, una parte del primo atto dei Sei personaggi in cerca d’autore, alcuni dei Dialoghi con i morti di Luciano di Samosata. Premetto che io non conoscevo i ragazzi, mi ero limitato ad assistere a un loro saggio preparato all’Accademia, cercando di intuire necessità e problemi che avrebbero potuto esserci. Per la scelta di ognuno di quei testi c’erano, del resto, delle motivazioni. Il racconto di Andersen l’ho scelto perché è un monologo, e oggi sappiamo che l’esubero di monologhi in giro è preoccupante. Non a caso in tutte le scuole c’è una grande richiesta di monologhi, perché molti pensano di poterli utilizzare come materiale per un provino. E questa è già una pratica di per sé ripugnante: io non ho mai preso un attore a lavorare con
me attraverso un provino, a meno che non fosse un test già finalizzato a una parte o a una situazione. Spesso invece si sceglie come “prova” un monologo per la sua assoluta autoreferenzialità, che non ha necessità di misurarsi con altro. Il racconto di Andersen invece, dietro l’apparenza della storia di una teiera, presenta molti altri aspetti: dall’esigenza di dover antropomorfizzare una teiera, al moltiplicarsi delle voci. Nel racconto di quelle disavventure, infatti, sono presenti diverse altre “voci”, come quelle della zuccheriera o della tazza. E allora dentro le vicissitudini della teiera, si parla ad esempio di rapporti tra servi e padroni…. mentre d’altra parte lei si trasforma in una specie di figura materna. Quindi all’interno di un monologo non c’è un solo io, ma una pluralità di voci. Un’altra difficoltà che immaginavo avrebbero incontrato i ragazzi, perché so che capita di frequente, è quella a relazionarsi con gli altri personaggi. Per questo ho scelto la scena da Pirandello, che prevede la presenza di otto personaggi. E con tutti bisogna stabilire una relazione, tenendo conto dell’ascolto degli altri, delle loro reazioni, dei loro tempi. In questo caso, dunque, sulla base del testo si costruisce un lavoro di relazione che trasforma i singoli interpreti in un’équipe. Il risultato credo sia stato davvero soddisfacente. Un altro testo, quello dei Dialoghi di Luciano, li ha portati a prendere in considerazione la necessità
dell’ironia, della leggerezza, senza cadere in qualcosa di greve o pesante; e soprattutto la calma, trattandosi di morti… Così da poter evitare, come in Pirandello, la concitazione, e imparare a recitare rimanendo calmi, ossia consapevoli, senza falsa euforia. Quanto al Candelaio, come Pirandello, l’ho scelto perché è scritto in italiano, e che italiano! Dopo quattrocento anni, riflette perfettamente dei modi di pensiero, dei comportamenti, delle aspettative, delle energie, delle delusioni, delle frustrazioni riconoscibili ancora oggi. È in qualche modo una questione di stile, e non di occhio! Perché una cosa è certa: il “moderno” o il “contemporaneo” non sono un “genere”, ma piuttosto il “come” vediamo le cose oggi, ovvero diversamente da come le vedevano prima. Se lo prendi come uno “stile”, invece, il nuovo diventa vecchio più rapidamente di un taglio di capelli.

E com’è andata la verifica nei fatti, cioè nel lavoro assieme a una generazione nuova di attori?
Bisognerebbe forse chiederlo a loro. Io penso che si dovrebbe far sentire sempre che l’andare in palcoscenico a recitare è un dovere, una fatica, un impegno, ma anche un piacere. Però il piacere non deve essere manifestato, altrimenti diventa compiacimento: si recita la propria contentezza per la figura che si fa. Deve esserci invece il piacere
della fisicità dell’attore. Per conquistare una vera “naturalezza”. Che non è una somma di comportamenti “naturali”: giustissimo voler sembrare naturali, ma bisogna capire in profondità cosa vuol dire “naturalezza”, come avvicina a delle forme di pensiero. Non è un modo di comportarsi, che può scadere in una falsa disinvoltura.

A vederli con l’occhio dello spettatore questi quattro pezzi, non facili, sembrano già pronti per essere proposti a un pubblico più vasto. anche i testi che avevi già portato in scena precedentemente, qui aprono spiragli inediti, forse anche per la presenza di una generazione nuova di attori.
Sicuramente. E questo conferma quanto dicevamo poco fa. Del resto, si rinnovano le generazioni di attori, ma insieme cambio pure io. Oggi, in quei testi, vedo cose, legate alla scrittura o al senso, che prima mi pareva di non aver colto o sottolineato abbastanza. Io amo questo tipo di esperienza, proprio perché il sottrarsi alla responsabilità della rappresentazione, ti fa vedere le cose molto meglio.