20 Ottobre 2017

2003 / Peccato che fosse puttana di J.Ford

Lo spettacolo debutta il 22 giugno 2003 al Teatro Farnese di Parma, nell’ambito del Reggio Parma Festival.
Ronconi firma una duplice versione dell’opera del drammaturgo elisabettiano affidandola a due cast distinti, uno tutto al maschile, un altro misto con attori e attrici, per indagare la complessità delle relazioni e delle ambiguità che compongono la trama del testo.
Nella stagione 2003/2004 lo spettacolo è in tournée al Teatro Stabile di Torino, al Mercadante Teatro Stabile di Napoli e al Piccolo Teatro di Milano.

Lo spettacolo è prodotto dal Centro Teatrale Santacristina e dal Teatro Festival Parma in coproduzione con Teatro Stabile di Torino, Mercadante Teatro Stabile di Napoli, Piccolo Teatro di Milano – Teatro d’Europa


Locandina/Programma
Parma – Teatro Farnese, 22 giugno / 8 luglio 2003
cast maschile e femminile 22, 25, 27, 30 giugno, 1, 4, 6, 8 luglio
cast solo maschile 24, 26, 28 giugno, 2, 5, 7 luglio

Produzione Centro Teatrale Santacristina, Teatro Festival Parma, in coproduzione con Teatro Stabile di Torino, Mercadante Teatro Stabile di Napoli, Piccolo Teatro di Milano – Teatro d’Europa

Peccato che fosse puttana
di John Ford

Traduzione Luca Fontana

Regia Luca Ronconi

Frate Bonaventura Giovanni Crippa / Antonio Zanoletti
Cardinale Vladimiro Russo
Soranzo Simone Toni / Raffaele Esposito
Florio Antonio Zanoletti / Luciano Roman
Donato Michele Nani
Grimaldi Mirko Soldano / Stefano Moretti
Giovanni Luciano Roman / Francesco Martino
Bergetto Raffaele Esposito / Simone Toni
Ricciardetto Sergio Leone
Vasques Riccardo Bini / Giovanni Crippa
Poggio Stefano Corsi
Annabella Laura Pasetti / Nicola Russo
Ippolita Pia Lanciotti / Pasquale Di Filippo
Filoti Paola De Crescenzo / Paolo Maria Pilosio
Puta Barbara Valmorin / Riccardo Bini
Banditi, guardie, invitati Francesco Da Riva Antonluigi Gozzi, Vincenzo Furfaro, Giacomo Talignani, Jacopo Veronese

Scena Marco Rossi
Costumi Simone Valsecchi e Gianluca Sbicca
Musiche a cura di Paolo Terni
Luci Giudo Levi
Suono Daniele D’Angelo

Assistenti alla regia Anna Antonelli, Marco Rampoldi, Vladimiro Russo, Federico Olivetti
Direzione di scena Angelo Ferro, Marco Albertano
Direzione allestimenti Mario Fontanini
Collaboratore luci Fiammetta Baldisseri
Capo elettricista Luca Bronzo
Elettricisti Marco Ballero, Elio Bazzoni, Luca Bergamini, Claudio Cerchiaro, Giacomo Gallina, William Trentin
Macchinisti Stefano Agostinetti, Massimiliano Colangelo, Maurizio Mangia, Alan Monney, Giuseppe Premoli, Massimo Zanelli
Attrezzista Daniele Ferro
Decoratrici Margherita Ablondi, Nuria Cabanas, Emanuela Dall’Aglio, Gabriella Rotondi
Fonici Andrea Romanini, Matteo Maserin
Fonici stagisti Dario Andreoli, Debora Baisotti, Alexander Nouraelev, Luca Pedrelli, Valentina Tavani
Capo sarte Piera Ambroselli, Luigia Lezzi
Sarte Silvana Avanzini, Beatrice Mariotti
Truccatrice Luisa Rabotti
Parrucchiere Francesca Iuculano, Gianna Matteuzzi
Parrucche Audello
Realizzazione costumi Sartoria del Piccolo Teatro di Milano
Foto di scena Marcello Norbeth

Responsabile di produzione Claudia Di Giacomo (PAV)

Responsabile di progetto Roberta Carlotto

Materiali
Relazioni pericolose di Nadia FusiniIntervista a Luca Ronconi di Giovanni RaboniIl cuore e l'onore di Anne BartonPeccato che fosse puttana. Nota del traduttore di Luca Fontana

Ford è autore terminale: sta al termine di un’ epoca. Dopo di lui i Puritani chiuderanno i teatri, a bandire definitivamente quel che avevano tutto il tempo attaccato: lo spettacolo di una parola drammatica e ineguale, la parola sovrana dell’ Attore e del Re.
Il teatro elisabettiano e giacomiano – cui Elisabetta e Giacomo presiedono regnando- è ancora teatro del Re, non solo perché intrattenimento alla Corte particolarmente gradito, e perché King’s Servants, o King’ s Men, nel caso della compagnia di Shakespeare, si dicono gli Attori. Ma perché il Re è il suo simbolo, in quanto rappresenta in sintetica evidenza la doppiezza di un corpo che è insieme simbolico e reale. Creatura supremamente equivoca, il Re dispiega nella mascherata dell’ addobbo, nell’ illusione dell’ ombra, il fondamento teatrale della vita tutta. Elisabetta e Giacomo ne sono consapevoli in massimo grado. Più volte ripetono: la vita è teatro, e il re un attore. Il primo. Di tale Weltanschauung Ford vede la fine. E’ in questo senso il testimone di una eclissi, e la rappresenta. Il pessimismo, l’ estremismo del suo teatro hanno qui il fondamento del loro umore nero, della loro melanconia.
Giacomo I muore nel ’25 con la corona in testa nel fasto di una regalità ormai tutta illusione, tutta scena. Il suo successore Carlo I, vent’ anni dopo e passa, il 30 gennaio 1649, deporrà testa e corona su un altro palcoscenico, il patibolo. Con la testa del Re che rotola dal palco, mentre attori veri, presi dalla strada, recitano nel nuovo teatro- verità, inizia una nuova specie di cose vere e muoiono tutto un mondo di cose false che avevano sostenuto la scena tragica – dai Greci fino a Shakespeare.
Ford -il quale compone i suoi drammi durante il regno di Carlo I ed è dunque, a dar retta agli inglesi e al loro cuore monarchico, un autore carolino- non vedrà di persona il re Carlo giustiziato, ma che il simbolo regale sia caduto, che il Re abbia perso l’ ombra non ha dubbi. Non a caso l’ unico re che troviamo nelle tragedie di Ford è, nel dramma omonimo, Perkin Warbeck, il falso pretendente, che della regalità svela la fondazione fragile, se addirittura la si può truccare e fingere come fa lui; o esercitare senza sembrare il Re, come nel caso, sempre nello stesso dramma, di Enrico VII.
In senso non solo cronologico, ma epocale – questo intendo- Ford viene dopo Shakespeare: è questa sua ‘posterità’ a farne un autore postumo, il quale scrive alla fine di un’ epoca, e di una forma espressiva disorientata, avendo perso il suo astro. Rimane però in lui della cometa-Shakespeare la coda di una domanda circa la regalità. E’ appena un resto, il saldo di un’ idea- che nasce da una stupenda metafora shakespeariana, che Ford ha l’ immaginazione ardita di riprendere. La metafora occorre nel Re Lear, e precisamente nella descrizione che un gentiluomo, il quale nel dramma non ha neppure il titolo del nome proprio, fa di Cordelia. Dalla Francia, dove il padre stolto in un attacco d’ ira l’ha esiliata, Cordelia torna per salvarlo dalle sorelle cattive. Sbarca a Dover. E’ inquieta, teme che tutto sia perduto. Sa che Regan e Gonerill hanno scacciato il padre nella notte, all’ aperto, hanno esposto il povero vecchio alla furia della tempesta. Il padre, paventa Cordelia, sarà morto. Ma il gentiluomo le porta una lettera e lei legge. E lui la osserva: il chiaro volto di Cordelia è per un istante l’ agone drammatico in cui si scontrano le passioni dell’ amore e del dolore. Sovranamente lei le controlla entrambe e in un dramma dove tutti si lasciano dalla loro propria particolare libido travolgere, lei si domina e appare a chi la guarda “regina della passione ribelle che tenta di diventare il suo re.”
Ecco come il simbolo regale, spogliato della sua potenza teologica e teleologica, viene impiegato per descrivere un conflitto, una tensione, una doppiezza e duplicità innata alla creatura umana: la sua croce – il palo a cui è crocefissa. E cioè, la feroce lotta tra passione e ragione. Si potrà, in altri termini, manifestare la propria regalità in quanto sovranità sulla passione. Farsi re del proprio animo. Traluce in questa nuova missione un riverbero dell’ antico precetto umanistico e rinascimentale, che tra i motivi dell’ elogio dell’ uomo elencava la potenza del ‘conosci te stesso’.
In Ford questo motivo risuona nel tema principale del dramma di Giovanni. Il quale, però, sovverte la disciplina tra ragione e passione, impiegando la ragione per legittimare, grazie a una personale, pre-nietzschiana sovversione dei valori morali, la sua passione. Giovanni vuole, desidera Annabella. L’ ama. Che male c’ è ? direte. C’ è che il desiderio è in sé sempre peccaminoso, quando si presenti, come nel caso di Giovanni (che non intende sottomettersi a nessuna ascesi), nella forma furiosa di un appetito vorace di piaceri carnali. In più, Annabella è sua sorella. Il soddisfacimento della passione richiede, perciò, la violazione di un divieto.
Il tabù dell’ incesto non l’ ha inventato la Chiesa, è un fondamento repressivo della Civiltà tout court. Ci sono regole, che presiedono alla regolazione della passione carnale; regole formali, in virtù delle quali non ci si può impossessare proprio di tutto quello che capita a tiro. In particolare, non di chi ci è a portata di mano, troppo vicino. Non si gode del proprio, ma semmai dell’ altrui; ci sono gradi probiti alla copulazione, gradi di impurità e di contaminazione – così recita il tabù dell’ incesto che, grazie all’ interdizione del proprio, attiva il principio della circolazione.
Tra sé e il suo appetito Giovanni dovrebbe, dunque, mettere distanza. Dovrebbe riconoscere la propria pulsione incestuosa come mossa nociva allo scambio esogamico, necessario a creare alleanze più vaste, a far entrare nella scacchiera del piacere dame e pedine e fanti estranei. Ma lui no, lui si incaponisce con effetti dai risultati tragici.
Secondo lui, il corpo è natura e non va inscritto in un sistema di regole. Le regole sono meschini artifici storici, misere convenzioni, espedienti banali rispetto alla potenza divina della Natura, incarnata nella pulsione umana, troppo umana, nel suo caso, di fottersi la sorella. Così, anche quando Giovanni, per difendere la sua passione, o libido, ricicla con zelo avvocatesco un certo qual linguaggio d’ amore platonico, l’ argomento va a vuoto, perché copre una menzogna.
Lo stile cortese non edulcora affatto il brivido di fronte al proibito, non maschera quanto all’ incremento del piacere sia necessaria, nel caso di Giovanni, l’ impurità dell’ atto. Giovanni non è Romeo, né Annabella Giulietta. A separarli, nel loro caso, è la troppa vicinanza.
Giovanni e Annabella non si amano al modo dei due amanti veronesi. Una cosa è l’ amore, un’ altra il desiderio sessuale, che in questo teatro si chiama lussuria. Giovanni e Annabella non si corteggiano, copulano; ovvero, acconsentono all’ apppetito, lo soddisfano. E proprio qui la loro unione si disgrega ed emerge, tra i due, la differenza che neanche l’ intrigo incestuoso riesce a nascondere. La differenza è, per l’ appunto, sessuale: riguarda il fatto di essere uomo o donna, prima che fratello e sorella.
C’ è una verità antica, una verità greca, che Tiresia insegna: la relazione tra un uomo e una donna è sempre scandalosa. Perché? Perché la donna è scandalo. Che sia madre, o sorella, o sposa. E’ scandalo in quanto lei gode di più dell’ uomo. Tiresia lo afferma con certezza, avendo dalla sua la forza dell’ esperienza, poiché è stato sia uomo che donna: da uno a dieci, la donna gode nove, l ‘ uomo meno di sei, afferma. Nell’ atto dell’ amore, chi riceve realmente è lei. Il che non significa che lei non dia. Anzi, lei si dà, dà se stessa.
E allora riflettiamo: Giovanni, quando gode? Se non quando prende? quando entra nella sala del banchetto con in mano un cuore che non è il suo, che ha strappato dal petto di Annabella, come fosse cosa sua? Se non quando dà la morte?
E Annabella, quando gode? Se non quando riceve la morte?
Rispetto al velo suicidario e mortifero che in Giovanni adombra il piacere e si confonde col desiderio, in Annabella il godimento rifulge nell’ atto del morire. E’ in punto di morte, come tutte le martiri, che Annabella trionfa lasciando sulla scala della jouissance parecchio indietro il fratello. Preceduta dal pentimento per i piaceri sessuali che pure non sconfessa di aver provato, la morte di Annabella, che non possiamo nominare se non come sacrificio, acquista una trascendenza sinistra, e la riabilita. Come rifletterà il cinico cardinale, certo, se l’ è goduta, è stata una grande ‘puttana’ (che vuol dire, né più né meno: è stata una donna che ha goduto dei piaceri della carne). Ma il martirio la purifica.
I piaceri carnali sono illeciti e si debbono pagare, secondo il Cardinale e la Sacra Romana Chiesa. E se a un calcolo dei debiti si riduce la morale, Annabella si rimette in pari. Non è così per Giovanni, ateo e libertino, il quale non accetta nessun grado di giudizio, né riconosce nessun debito, e se affonda il coltello nel seno di Annabella incinta è perché dal perturbante e perturbato amore della sorella insorge un fantasma, quello gravido, materno, che lo perseguita come un’ Erinni. La sorella che sta per diventare madre lei stessa, è un doppione della madre. E questo incesto no, non è permesso. E’ troppo anche per un drammaturgo estremo come Ford. L’ incesto con la madre è irrappresentabile, deve rimanere mitico.

Prima di affrontare l’argomento specifico, cioè il testo di John Ford e la messa in scena che stai per farne, vorrei farti una domanda di carattere generale. Il teatro elisabettiano è stato, fra tardo Ottocento e primo Novecento – grosso modo dagli anni del decadentismo a quelli del surrealismo – uno dei grandi miti culturali della cultura europea. Prima in Inghilterra e poi, soprattutto, in Francia, la produzione teatrale inglese degli ultimi decenni del XVI secolo e dei primi decenni del XVII diventa una sorta di simbolo di tutti gli eccessi e gli scatenamenti, da quello figurale a quello etico. La sensibilità romantica aveva riscoperto Shakespeare in nome della suprema libertà dell’immaginazione; la sensibilità moderna riscopre i suoi contemporanei in nome della trasgressività (un po’ come, qualche anno dopo, scoprirà Sade e Lautréamont). Quello che ti chiedo è che cosa rimane oggi di quel mito, ovvero se è ancora in qualche modo attiva e riconoscibile, per usare la terminologia continiana, una “funzione” teatro elisabettiano.
Direi, tutto sommato, di no. Quelle caratteristiche – la trasgressione, la violenza, il portar tutto all’estremo – sono defluite in una tale pletora di altre forme di comunicazione… Certo una sorta di deriva elisabettiana è ancora rintracciabile, mettiamo, nella drammaturgia di Sarah Kane e anche in certe forme di scrittura teatrale che siamo portati a considerare come forme epigonali delle idee sceniche di Artaud mentre bisognerebbe vedere quante di esse derivano, appunto, dal modello elisabettiano. Però la cosa essenziale è che di violenza, di trasgressione, di eccessi è pieno lo spettacolo nel senso più vasto del termine, dal cinema alla televisione, il che non può non far decadere l’importanza del dramma elisabettiano come modello o simbolo di tutto questo. Ela cosa può essere tutt’altro che negativa, perché ci consente una maggiore libertà di sguardo nei confronti, non tanto del dramma elisabettiano, quanto di singoli drammi elisabettiani, consentendoci di vederli non più come esempi tipici di un genere così fortemente caratterizzato ma, appunto, come singoli testi.
Dunque: “Peccato che fosse puttana”. Che oltretutto, pur non mancando, diciamo così, di una forte tipicità elisabettiana, possiede tuttavia parecchi elementi di singolarità, elementi non presenti nella maggior parte degli altri testi e degli altri autori dell’epoca.
Premetto, per fare un po’ la storia, che non sono stato io a scegliere questo testo; me l’hanno proposto, già tre anni fa, dal Festival di Parma per farlo al Teatro Farnese, e la mia prima impressione, la mia prima reazione sono state un po’ incerte. Ho dovuto studiare parecchio prima di decidere se farlo o no, e questo perché avevo l’impressione che fosse difficile staccarsi dal cliché: il cuore infilzato, l’incesto… Poi mi è sembrato di capire che nella commedia – parlo naturalmente della lettura che sono portato a darne – ci sia, in effetti, qualcosa di abbastanza curioso, di abbastanza singolare rispetto alla costellazione degli altri testi elisabettiani, rispetto al “tipo” elisabettiano. Apparentemente è una cruenta storia di incesto; in realtà non è tanto la storia della coppia che“commette” l’incesto quanto la storia di una coppia incestuosa in relazione ad un’altra serie di coppie, formatesi non per vincoli parentali, ma per vincoli generazionali o sociali o ideologici, e io penso che la cosa più interessante sia partire da lì, cercare di leggere e rappresentare questi vincoli e quella relazione. Insomma, vedere la commedia come un insieme, come una sorta di movimento complesso animato da queste coppie: per esempio, Giovanni e il Frate, Annabella e la sua Governante, Soranzo e Vasques, Grimaldi e il Cardinale, Bergetto e Poggio. Sono tutte coppie caratterizzate da una differenza d’età, formate da un giovane e da una persona anziana, ed è molto difficile decidere quale sia, in ciascuna coppia, la funzione della persona anziana: se si tratti, voglio dire, di un reale protettore o di un potenziale persecutore. Questo è anche uno dei motivi per i quali ho deciso di fare lo spettacolo in due versioni; perché non sono riuscito a optare per una delle due alternativee forse è giusto non riuscirci.
All’interno di questo sistema di coppie squilibrate (verrebbe voglia di dire sbilenche) e in qualche modo “ideologiche”, cioè artificiose, come si situa una coppia doppiamente naturale (in quanto determinata sia dal vincolo parentale che dall’attrazione erotica) come quella Giovanni–Annabella?
Quel sistema di rapporti inquietanti, terribilmente inquietanti perché generano tensioni mai dichiarate, mai esplicitate, mai dette, fa in qualche modo da contrappeso alla tensione che c’è tra Giovanni e Annabella e che nasce appunto da pulsioni naturali, da istinti naturali. Questa è, per ora, la mappa che ho in mente, e che oltre a essere diversa da quella che appare a prima vista è anche decisamente più interessante, almeno per chi ci deve lavorare.
La stessa struttura del testo, la sua cronologia interna, sembra confermare o quanto meno legittimare questo quadro. Il rapporto incestuoso fra Giovanni e Annabella, a pensarci bene, non è qualcosa che avviene durante il dramma, ma qualcosa che è già avvenuto, qualcosa che sin dall’inizio si dà per scontato perché viene percepito, in un certo senso, come un fatto della natura.
Infatti la prima rilettura che ho fatto del testo è stata, come sempre, una rilettura di tipo narrativo ed è stata, in quanto tale, deludente. Ma come, mi son detto, alla fine del primo atto i due fanno l’amore – e prima ancora avevano già deciso di farlo; in un certo senso è la prima cosa che ci viene detta, la prima cosa che veniamo a sapere – e poi, perché succeda qualcos’altro, dobbiamo aspettare fino all’ultimo atto? Cosa c’è da vedere in scena? In realtà lo schema vero è un altro: c’è un segreto che viene rivelato immediatamente al pubblico ma che solo i due fratelli–amanti conoscono, che è ignorato da tutti gli altri personaggi, equestoètipico, per fare un paragone cinematografico, non di un film d’azione ma di un film di suspense.
Un’altra cosa che mi ha colpito molto, rileggendo il testo, è che si ha costantemente l’impressione di trovarsi di fronte non a una tragedia, ma a una commedia; e ho notato che anche tu, parlandone, hai detto quasi sempre “commedia” e solo qualche “dramma”, mai comunque “tragedia”…
Sì, è più una commedia che una tragedia, nonostante il cuore infilzato e il numero abbastanza cospicuo di altre morti più o meno cruente. E questo pone il problema di giustificare in qualche modo il finale, diciamo così, truculento; o meglio, non tanto di giustificarlo (che vorrebbe dire far tornare a tutti i costi i conti secondo qualche criterio) quanto di situarlo, di dargli una collocazione. Equi torniamo, per un altro verso, all’idea delle due versioni.
E’, immagino, una delle cose che incuriosiranno di più, che daranno maggiormente luogo a ipotesi e supposizioni. E di sicuro ci sarà qualcuno che penserà a un’intenzione filologica,all’idea di accostare ciò che si fa oggi con ciò che si faceva “all’epoca”.
E sbaglierà. Se facci o due versioni non è per farne una “come la facevano gli elisabettiani ” con i ragazzi al posto delle donne ma perché, testo alla mano, mentre il rapporto tra Giovanni e Annabella è un rapporto chiaro, per niente ambiguo (si capisce benissimo cosa vogliono l’uno dall’altra, di che tipo di scambio o, meglio ancora, di non–necessità di scambio si tratti), i rapporti tra ciascuno di loro e i loro mentori – il Frate, la Governante – sono talmente ambigui che è difficilissimo capire se i personaggi maturi sono protettivi o se sotto le apparenze e i modi della protettività si nasconde invece la distruttività. Nel rapporto, per esempio, fra un maestro e un allievo io credo che si possa arrivare (non parlo, grazie a Dio, per esperienza personale) a delle vendette feroci se il maestro ha l’impressione che il suo allievo prediletto segua un’altra linea, che tenda a corrompere i suoi insegnamenti in funzione di un’altra esperienza. Questo vale soprattutto per il rapporto fra Giovanni e il Frate. Ma anche nelle scene tra Annabella e la Governante ci sono, al di là del dichiarato, delle spie che possono far supporre nel personaggio anziano un atteggiamento, non importa se consapevole o inconsapevole, di invidia piuttosto che di incoraggiamento.
Forse si può dire qualcosa di analogo anche a proposito del rapporto fra Vasques e Soranzo? E’ abbastanza difficile, più di una volta, decidere se l’anziano e fedele servitore stia davvero proteggendo il suo padrone o lo stia invece mandando – più o meno consapevolmente, anche in questo caso – alla rovina.
Sì. Una delle cose più interessanti della commedia è proprio questa: non l’aspetto efferato, che forse è semplicemente l’esito, il risultato della vicenda, ma l’ambiguo, il non detto, la reticenza.
C’è come uno spostamento dell’asse dell’inquietudine – o meglio dell’inquietante, del perturbante – dalla vicenda centrale, che è invece improntata a una sua paradossale naturalezza, alle altre vicende, ai rapporti paralleli o di contorno. Il che fornisce forse, indirettamente, un’ulteriore conferma all’impressione – che entrambi, mi sembra, abbiamo avuto e continuiamo ad avere – di essere di fronte più a una commedia che a una tragedia. In una tragedia il senso tende all’univocità e la responsabilità del senso grava, per così dire, sui protagonisti, mentre in una commedia il cuore dell’inquietudine, e dunque del senso, può battere capricciosamente altrove.
In ogni caso è proprio grazie a questi spostamenti multipli che si riesce a collocare e condurre meglio la stessa vicenda dei protagonisti. Rimane continuamente in sospeso la risposta alla domanda se Giovanni e Annabella siano delle vittime o dei provocatori, se Giovanni, in particolare, sia succube del Frate oppure lo prevarichi, e così la commedia acquista una sorta di slancio perpetuo – almeno spero.
Per te ha ancora qualche senso l’interpretazione di marca simbolistico–decadente (che si riflette, fra l’altro, nel famoso adattamento di Maeterlink andato inscena a Parigi nel 1895) che vede nell’incesto di Giovanni e Anna bella un gesto “rivoluzionario” e in Giovanni una sorta di eroe? Qualcuno, non ricordo chi, ha addirittura paragonato la spavalderia con cui il giovane accetta l’invito–trappola di Soranzo a quella con cui un altro eroe trasgressivo, Don Giovanni, invita a cena la statua del Commendatore.
No, credo di no. A me la determinazione, l’oltranza di Giovanni sembra inscritta nel fatto stesso che l’impulso all’incesto viene presentato come un impulso naturale. Piuttosto mi sembra interessante il mutamento che avviene nei due a partire dal momentoincuil’incestovieneeffettivamenteconsumato: Anna bella appare appagata, mentre Giovanni dà l’impressione di diventare più inquieto, di volere di più, sempre di più.
Questa diversità di atteggiamento potrebbe avere qualcosa a che vedere con il fatto che Annabella è incinta.
Certo, in lei c’è ancora una volta una conseguenza, un seguito naturale, per Giovanni invece si ha l’impressione che la prossima carta da scoprire non possa essere che la morte. Tanto è vero che di fronte alla morte Annabella si pone come una martire (lei che canta – è uno dei segni classici, convenzionali del martirio…), mentre Giovanni più che sfidare la morte sembra che la chiami, che voglia farla precipitare. Come se non ci fosse altro da fare o da aspettare, come se quello fosse l’esito naturale. Insomma, cerchiamo di non vederlo come un eroe byroniano. Èchiaro che il romanticismo non poteva vederlo diversamente. Fare di un personaggio come Giovanni un eroe trasgressivo è, tutto sommato, l’altra faccia del moralismo. Ma in una commedia come “Peccato che fosse puttana” dov’è,dovesi trova il moralismo?
Solo il Frate e la Governante conoscono il segreto dei protagonisti; nessuno parla d’incesto tranne, appunto, il confessore e la confidente; ma la confidente, in qualche modo, lo sollecita, e il confessore si limita a fare i suoi esercizi. Quindi lo sguardo moralistico è solo quello del pubblico che assiste alla commedia, non c’è nessun moralismo intrinseco, interno al testo.
E se non c’è moralismo non può esserci neanche, simmetricamente, immoralismo – quell’immoralismo che pure, a un certo punto, gli è stato attribuito.
Sì, ho l’impressione che se volessi proporre un’interpretazione trasgressiva ed eroica del personaggio di Giovanni cercherei di colpire un bersaglio innocente.
Lasciando la realtà dei personaggi per tornare a quelle del testo, un’altra cosa che ho pensato rileggendolo, è che le sue qualità sono più romanzesche che poetiche. Con qualsiasi testo di Shakespeare, per esempio, si sa in ogni momento – anche nei più apparentemente funzionali, di passaggio, di raccordo ecc. – di aver a che fare con la poesia, di dover fare i conti con lo spessore e le vie di fuga della poesia, mentre qui a colpire è soprattutto quello che succede, l’evoluzione dei fatti e dei personaggi, insomma il funzionamento di un congegno narrativo.
Però è un congegno perfetto, una macchina narrativa e drammaturgica perfetta. E’ chiaro che non si possono fare paragoni (ne ho parlato più volte con gli attori) con il livello poetico dei testi shakespeariani; ma dal punto di vista drammaturgico il testo di Ford è costruito infinitamente meglio. Tant’è vero che fare dei tagli (ne abbiamo fatti, ovviamente) è molto più difficile qui che con Shakespeare, i cui testi dal punto di vista drammaturgico – non da quello poetico – hanno delle ridondanze, delle incongruenze, delle cose che non tornano. Qui no, qui tutto è drammaturgicamente ineccepibile, e se ci sono delle fallanze, delle cadute, sono imputabili alla mancanza di qualità poetica; dal punto di vista drammaturgico non ce ne sono, e persino le mancanze di tensione di certe scene hanno un senso, sono narrativamente funzionali.
Abbiamo concordato, prima, sul fatto che nonostante il bagno di sangue finale si tratta, in sostanza, più di una commedia che di una tragedia. Eppure le parti comiche sono poche, e non molto vistose.
Che sia più una commedia che una tragedia è vero; ma della commedia ha la leggerezza e l’ambiguità, non la vivacità, non l’allegria. Come commedia è, diciamo la verità, una commedia abbastanza inquietante. Quanto alle parti comiche va osservato che se nei drammi shakespeariani e, in genere, nei drammi elisabettiani, l’elemento comico è presentato come un diversivo, come un’interruzione, qui non è affatto così, qui gli interventi comici sono inseriti (molto bene) con la funzione opposta, quella di far risaltare di più l’elemento nero. Prendi, per esempio, il personaggio di Bergetto: diversamente dal clown shakespeariano, Bergetto non svolge alcuna funzione diversiva e non ha niente di carnevalesco. Sì è un personaggio comico, ma è comico perché gli altri lo deridono, in realtà è un innocente, e dentro uno schema drammaturgico in cui i due protagonisti, se il loro segreto fosse rivelato, sarebbero tacciati di colpevolezza, di un peccato quasi impronunciabile, Bergetto introduce la figura dell’innocenza derisa, di innocenza non capita. E’ un personaggio molto bello, patetico e divertente nello stesso tempo; gli altri lo considerano un idiota perché è rimasto un po’ bambino, e questo, più che comico in sé, è qualcosa che fa ridere gli altri. A me sembra che le vere figure comiche della commedia siano quelle della coppia di cui non abbiamo ancora parlato, Ricciardetto e Ippolita. O meglio, comiche non sono le figure quanto lo svolgimento, lo schema secondo il quale agiscono; la comicità sta nel fatto che cercano per tutto il tempo di colpire qualcuno senza riuscirci e finendo col colpire qualcun altro o se stessi. Sono, insomma, dei killer maldestri: Ricciardetto fa ammazzare uno invece di un altro, Ippolita ci rimette addirittura le penne… Quando si dice che la loro storia, nel dramma, è noiosa, è perché la si vede come una storia tragico–passionale, mentre in realtà sono due personaggi seri inseriti in un parallelismo da commedia.
Tornerei, per finire, sulle due versioni. Possiamo considerarle, almeno in partenza (le cose poi andranno come devono andare), le due metà di un
intero,due interpretazioni “aperte”,destinate a combinarsi e integrarsi tra loro?
Secondo me non ci si deve aspettare che siano molto diverse. La differenza – una differenza notevole, certo – sta nel fatto che cambiano i due protagonisti, che nella seconda versione sono molto giovani (come nella commedia) mentre nella prima sono volutamente più grandi, quasi a suggerire l’idea di una verginità protratta oltre il limite naturale. Io credo che la seconda versione, a dispetto del fatto che i protagonisti sono due ragazzi dello stesso sesso, sarà infinitamente più innocente della prima. Ma, a parte questo grosso cambiamento, tutto il resto cambia solo per minimi dettagli. Non ci si deve aspettare due spettacoli opposti. Semplicemente, in uno i personaggi giocheranno anche un po’ con se stessi, mentre nell’altro non avranno questa possibilità.

Quando John Ford scrisse Peccato che fosse puttana, in una data non ben precisata tra l’ascesa al trono di Carlo I, nel 1625, e la pubblicazione stessa dell’opera, nel 1634, Giulietta e Romeo (1595) di Shakespeare era già un dramma vecchio, ma niente affatto dimenticato.
Come Euripide nell’Atene della fine del V secolo a.C., John Ford era un drammaturgo che amava ricordare al proprio pubblico le opere particolari di un grande predecessore – Shakespeare nel suo caso, piuttosto che Eschilo o Sofocle – allo scopo di definire la natura affatto diversa dei suoi mondi drammatici. Perciò la Parma di Peccato che fosse puttana evoca intenzionalmente il ricordo della Verona di Giulietta e Romeo e di quella situazione: una situazione che in Ford sembra a un tempo ossessivamente familiare, eppure trasformata in modo inquietante.
Ecco una nuova coppia di sfortunati amanti vessati da un padre che vuol dare la figlia in sposa a un corteggiatore scelto da lui. All’inizio la relazione clandestina tra Giovanni e Annabella, come quella di Giulietta e Romeo, è nota soltanto a una nutrice ciarliera e a un frate tanto pio quanto inetto. Anche questa relazione sfocia nella violenza e nella morte…, ma la Parma di Ford, a ogni modo, è molto più corrotta e scellerata della Verona di Shakespeare, e i suoi personaggi principali le assomigliano solo in superficie.
Quando impone un marito ad Annabella, Florio, il padre borghese, (al contrario di Capuleti in Shakespeare) si preoccupa soltanto del ceto e del censo. Il nobile Soranzo, suo genero preferito, non è (come Paride, lo sfortunato corteggiatore di Giulietta) una vittima amorevole e senza colpe intrappolata in una situazione che non capisce. È un libertino, con una vita e una reputazione riprovevoli, la cui relazione adultera con la vendicativa Ippolita è sulla bocca di tutti a Parma. Ha persino raggiunto l’orecchio della confidente di Annabella, che in modo appropriato risponde al nome di Puta.
La punizione che quest’ultima subisce alla fine dell’opera, ossia il rogo, dopo che Vasques, lo scagnozzo di Soranzo, su ordine del Cardinale, le ha cavato gli occhi, è spaventosa. Si tratta comunque di una donna che a cuor leggero ha rassicurato la padrona (Atto II) dicendole che se una giovinetta si sente sopraffatta dal desiderio sessuale, allora si prenda chi vuole, padre o fratello, fa lo stesso. La nutrice di Giulietta aveva semplicemente consigliato la bigamia per sfuggire alla situazione disperata, consiglio a causa del quale era stata scacciata da Giulietta come una “vecchia maledetta”. Il consigliere di Giovanni, Frate Bonaventura, almeno, non ha dubbi che l’incesto sia un peccato gravissimo. Il fuoco infernale delle sue minacce, comunque, ha ben poca efficacia sull’allievo. Quando consiglia Annabella, che è incinta, di sposare Soranzo prima per la salvezza del tuo onore, e di interrompere la relazione sessuale col fratello se vuoi salvarti l’anima è difficile non sentire che quest’uomo di chiesa ha rovesciato in modo bizzarro le priorità e che sta, inoltre, incoraggiando un volgare inganno matrimoniale.
Quando Soranzo scopre la gravidanza e la relazione incestuosa della moglie, Bonaventura, codardo, abbandona Giovanni e Isabella e scappa da Parma. Le intenzioni del Frate Lorenzo shakespeariano, ostacolate solo dal caso e dalle cattive coincidenze, erano innegabilmente buone. I principi morali e il comportamento di Bonaventura non lo sono.
Nonostante Giulietta e Romeo fossero idealmente adatti l’uno all’altra, la ferale ostilità tra Capuleti e Montecchi rendeva impossibile la loro unione. In Peccato che fosse puttana, Ford colloca tra Giovanni e Isabella un ostacolo ancora più insormontabile. L’incesto fratello–sorella è un tabù primario. L’opera ricorda agli spettatori quel tabù per tutto il tempo, mentre asserisce con chiarezza che non c’è nessuno tra i poco attraenti corteggiatori di Annabella (Soranzo, Grimaldi, Bergetto), che lei possa amare.
Quando Ford fa inginocchiare insieme fratello e sorella (atto I) e fa loro riconoscere la reciproca passione attraverso un duetto convenzionale amami, o ammazzami, fratello… Amami, o ammazzami, sorella, non ha dimenticato che l’affinità tra gli amanti shakespeariani si era manifestata, durante la loro prima conversazione, grazie alla composizione istintiva di un sonettoin versi. Il rapporto altrettanto intenso tra Giovanni e Annabella è più sinistro e adombra la successiva distruzione l’uno dell’altra.
Eppure esso attesta anche l’affinità delle anime, non solo quella del sangue. In questo punto è prefigurato l’interesse del futuro Romanticismo europeo per l’incesto tra fratello e sorella come ricerca
di quella che Giovanni chiama l’ “anima gemella”: l’unione fisica e spirituale a un sé che è allo stesso tempo uguale e, in modo tormentoso, diverso dal proprio.
È la presenza implicita di quest’idea a rendere la tragedia di Ford tanto ricca di ambivalenze.Annabella, spaventata dagli ammonimenti del frate, dalla sua gravidanza colpevole e dalle richieste del padre, acconsente a sposare Soranzo. Per Giovanni, ormai folle di gelosia, questo è il tradimento di ciò che altrimenti sarebbe stato (ne ha sentore, in modo del tutto irrazionale) un amore perfetto e inviolabile. Ma anche lui tradisce quello stesso amore.
Durante tutta l’opera, il termine “onore” è altamente sospetto perché utilizzato non solo dal frate, ma anche dal romano Grimaldi che si vanta di essere uno che l’onore se l’è pagato col sangue; da Ippolita, quando parla del falso onore del mio casto seno; da Soranzo che giura sul mio onore di odiare la lussuria di Ippolita, ora che se n’è stancato.
Quando nell’atto V Giovanni dichiara A me sia la vendetta! E vinca amore, prima di uccidere la sorella e il figlio non ancora nato, egli precipita in quel vizioso mondo di Parma dal quale lui e Annabella, malgrado il loro amore trasgressivo, avevano all’inizio cercato di distinguersi. Le parole di Annabella morente fratello, snaturato, snaturato (unkind), contengono in inglese un gioco di parole dal potere devastante. Giovanni, ovviamente, è brutale, non cortese, quando la pugnala, e allo stesso tempo sta negando quell’affinità di sangue, mente e anima un tempo tanto preziosa per entrambi.
“Onore” non è l’unica parola che alla fine del dramma si illumina di una luce improvvisa e terrificante. In teatro l’apparizione finale di Giovanni, con in mano il cuore appena strappato dal corpo della sorella, giunge come uno shock. Ma l’orrore non è immotivato. Come il termine “onore”, anche la parola “cuore” martella insistente per tutto il dramma in termini sia figurati sia astratti. Solo Annabella, durante uno scambio di battute con Soranzo, interpreta “cuore” in modo letterale, come un vero e proprio organo. In tutti gli altri casi il termine è una metafora: qualcosa che può essere scambiato o messo in mostra senza dolore; su cui si può scrivere; che si può dare in pegno o indagare per cercarvi l’affetto, la falsità o la sincerità. Come una sorta di non–parola radicata nella poesia d’amore convenzionale, il termine “cuore” figura in quanto parte di un vocabolario, meccanico e per ciò stesso fatalmente inconsapevole, di relazioni e sentimenti presenti in quella società. È quell’intero vocabolario, non solo il corpo di Annabella, che Giovanni lacera alla fine di questo brillante e provocatorio dramma di Ford.
Ogni “nota del traduttore” appare un po’ sempre come una presa di distanza dal lavoro fatto, o, peggio, come un mettere le mani avanti chiedendo venia delle proprie insufficienze. Tanto più se il testo tradotto non è destinato alla lettura paziente a tavolino, ma è nato per incarnarsi nella comunicazione immediata tra corpo che lo enuncia con voce e gesto e orecchio che l’ascolta, tra attore e pubblico. Un testo teatrale deve vivere nel presente assoluto della rappresentazione, e se quel testo è frutto di una smaliziata industria teatrale, come fu il teatro elisabettiano e giacobita, consapevolissimo, per lunga esperienza pratica, dei processi mentali dell’ascolto, di come, a esempio, l’immaginario metaforico si ricombini in altri insiemi significanti nella mente del pubblico, è necessario che la traduzione sia opera di chi ha una propria esperienza di pratica teatrale, e, se possibile, una lunga consuetudine d’ascolto di quei testi recitati in inglese sulle scene inglesi. Un buon professore di letteratura inglese, ahimè, non basta.
Tis Pity She’s a Whore, ossia Peccato che fosse puttana – e già quel fosse si discosta dalle correnti traduzioni italiane: il titolo è infatti tratto dalla quartina finale, una licenza si direbbe nel linguaggio teatrale italiano, e anche un cinico epitaffio pronunciato con sarcasmo dal Cardinale in morte di Annabella – è innanzi tutto un dramma in versi, e che rispetta una separazione di registri – nobili e mercanti parleranno in versi, personaggi “bassi” o comici, come Bergetto, parleranno in prosa – che era già un po’ arcaica ai tempi di Ford. In Amleto, per fare un solo esempio, è la materia del discorso e il contesto drammatico, non solo la classe sociale del personaggio, a determinare la scelta tra verso e prosa: la scena delle istruzioni agli attori è tutta in prosa. L’alternanza verso–prosa, in un dramma così attento alla definizione sociale dei personaggi come Peccato che fosse puttana è quindi una fondamentale funzione significante del testo che non si può e non si deve perdere. Un’esperienza ormai lunga mi ha insegnato che con attenta sprezzatura e libertà si può usare l’endecasillabo come unità ritmica di base, variandolo con versi composti e a volte tradendone gli schemi consacrati dalla tradizione poetica italiana. Il ritmo inoltre comunica assai più di una convenzione rappresentativa; può rendere sussulti del sangue e intermittenze del cuore, può mimarli gestualmente. E questa è una sapienza grande di tutto il teatro elisabettiano e giacobita. Perdere del tutto il tessuto fonico del testo può implicare la perdita di funzioni significanti decisive. È una scommessa necessaria quella di tradurre parole non trascurandone la musica, e qui la traduzione deve farsi il più possibile affine alla trascrizione musicale, deve riprodurre su un altro strumento effetti timbrici, percussivi, melodici del testo di partenza, deve distinguere tra legato e staccato, tra eufonia e voluta cacofonia, deve cogliere e rendere il più possibile le tante “figures of sound, figure di suono” di cui è intessuto il testo, decisivi elementi di linguaggio–corpo che comunicano per empatia fisica.
Peccato che fosse puttana ebbe la sua prima rappresentazione nel 1633 al Phoenix Theatre in Drury Lane a Londra, non un grande teatro a cielo aperto come il Globe di Shakespeare, ma un teatro chiuso tutto in legno, su progetto probabilmente di Inigo Jones, ispirato al Teatro Olimpico di Palladio – era infatti decorato da statue lignee e pare avesse una scena fissa d’impianto classico. Un teatro di piccole dimensioni in cui il maggior costo dei biglietti selezionava un pubblico mediamente più colto. Struttura del teatro e tipo di pubblico hanno certo influenzato molte delle peculiari scelte stilistiche del testo. In una situazione d’ascolto intimo molte delle “parodie” implicite nel testo – Giovanni a volte regredisce a un blank verse martellato, chiara eco di Marlowe e quindi esempi di “stile antico”; oppure recupera petrarchismi da sonetto; Soranzo fa finte citazioni da Sannazaro – arrivavano a un pubblico abituato al pastiche. Questo a teatro certo non lo si comunica con note a pie’ di pagina, però, lo si può segnalare all’orecchio con un netto mutamento di registro stilistico. Particolarmente godibile, per un pubblico ormai tutto protestante a quella data, era il linguaggio della scolastica cattolica, satireggiato, a esempio, nei falsi sillogismi – barocchi insenso proprio – con cui Giovanni giustifica la più temuta delle infrazioni al costume e alla religione, l’incesto. Quel pubblico li avrà certo accolti con fragorose risate. Questa polifonia di registri stilistici va colta e riprodotta il più possibile, è anch’essa fondamentale funzione comunicante del testo.
Begli intenti, tutti.Ma sono riuscito a far tutto questo? La cultura italiana in generale anche se il novanta per cento dei libri che si pubblicano in Italia, e forse, in eguale proporzione, dei testi che si recitano a teatro, sono traduzioni – sembra assai poco sensibile all’enorme problema della traduzione. La critica teatrale, poi, sembra ignorarlo del tutto. Non mi rimane che affidarmi alla critica viva del pubblico: tanto minore sarà il numero di scricchiolii di sedie, di tossi e squilli di telefonini, tanto maggiore sarà l’attenzione d’ascolto.
Voglio chiudere con un ringraziamento a Luca Ronconi. La sua attentissima lettura analitica del testo, ancora in sede di lavoro, obiezioni, perplessità e proposte che ne sono derivate, sono parte integrante della redazione finale del testo. Una traduzione per il teatro è infatti impensabile come scrittura condotta nel segreto della propria cameretta, mordicchiando la penna d’oca, con occhi arrovesciati al cielo a cercar la Musa. È scrittura viva da condursi in collaborazione con regista e attori, loro sono il corpo che agisce quelle parole, e in un teatro vivo è solo normale che per ogni nuova messinscena si pensi una nuova traduzione – essendo la traduzione un’ermeneutica infinita e aperta di un testo. Di ogni eventuale mancanza sono io solo responsabile, ma se l’applauso premierà lo spettacolo, quella parte di fragore che va al testo dovrà essere condivisa con regista e attori.