20 Ottobre 2017

2007 / Odissea doppio ritorno

Debutta il 4 settembre 2007 al Teatro Comunale di Ferrara. E’ un progetto articolato in due spettacoli che si svolgono contemporaneamente in due luoghi diversi – il palcoscenico e il foyer – e costituiscono un ideale doppio cammino. Ogni spettatore potrà percorrerlo nell’ordine che deciderà di seguire alla riscoperta del personaggio di Ulisse.
Il progetto ruota attorno a due testi, Itaca di Botho Strauss e L’antro delle Ninfe da Omero e Porfirio, da cui emergono, grazie alla messa in scena, una molteplicità di voci e di approcci all’interpretazione di Ulisse, personaggio mitico della classicità e paradigma della cultura moderna.
Nella stagione 2007/2008 lo spettacolo è in tournée al Piccolo Teatro di Milano e al Teatro Stabile di Torino.

Lo spettacolo è prodotto dal Centro Teatrale Santacristina e dal Teatro Comunale di Ferrara in collaborazione con la Scuola del Piccolo Teatro di Milano.


Locandina/Programma
Ferrara – Teatro Comunale, 4/9 settembre 2007

Produzione Centro Teatrale Santacristina e Teatro Comunale di Ferrara
in collaborazione con la Scuola del Piccolo teatro di Milano/Teatro d’Europa

Odissea doppio ritorno
due spettacoli di Luca Ronconi

Itaca
di Botho Strauss
traduzione di Luisa Gazzerro Righi

L’Antro delle Ninfe
da Omero e Porfirio
traduzioni di G. Aurelio Privitera e Laura Simonini

A cura di Emanuele Trevi

regia Luca Ronconi

progetto scenico Marco Rossi
costumi Silvia Aymonino
musiche Carlo Boccadoro
luci Nevio Cavina
movimenti Maria Consagra

registi assistenti Carmelo Rifici, Fabrizio Arcuri
assistente ai movimenti Alessio Maria Romano

direttore di scena Lino Sinisi

responsabili di produzione Claudia Di Giacomo (PAV), Anna Damiani

Itaca
Personaggi e interpreti

Pallade Atena Elena Ghiaurov
Ulisse Pierluigi Corallo
Ulisse Graziano Piazza
Ulisse Raffaele Esposito
Penelope Francesca Ciocchetti
Telemaco Vinicio Marchioni
Laerte Michele Maccagno
Euriclea Tatiana Lepore
Eumeo Riccardo Bini
Femio Cristiano Nocera
Irò Marco Grossi
Antinoo Cristian Giammarini
Eurimaco Stefano Moretti
Anfinomo Pasquale Di Filippo
Ctesippo Mirko Rizzotto
Elato Raffaele Sinkovic
Leode Massimo Di Michele
Leocrito Valerio Vittorio Garaffa
Anfimedonte Umberto Terruso
Demottolemo Riccardo Bocci
Agelao Mele Ferrarini
Euriade Nicolò Todeschini
Pisandro Fabrizio Nevola
Melanto Cristina Gardumi
Ginocchio Irene Petris
Polso Camilla Zorzi
Clavicola Giorgia Salari
Ancella Renata Antonante
Ancella Camilla Vincenzi

L’antro delle Ninfe
Personaggi e interpreti

I Francesco Colella
II Cristina Gardumi
III Alessandro Genovesi
IV Marco Grossi
V Giovanni Ludeno
VI Stefano Moretti
Ulisse Raffaele Esposito
Circe Elena Ghiaurov
Ulisse Graziano Piazza
Elpenore Massimo Di Michele
Tiresia Michele Maccagno
Anticlea Tatiana Lepore
Agamennone Cristiano Nocera
Ulisse Pierluigi Corallo

Materiali
Ritorno al futuro di Gianfranco CapittaSu Itaca di Botho StraussUlisse, Porfirio, le ninfe di Emanuele TreviTradurre L'Odissea di G. Aurelio Privitera

Ferrara ospita due spettacoli di Luca Ronconi, due spettacoli differenti e autonomi, eppure strettamente “collegati”. O come dice il regista “complementari”. Itaca di Botho Strauss e L’antro delle ninfe che Emanuele Trevi ha tratto da alcuni versi dell’Odissea e dal commento del filosofo Porfirio, andranno in scena al teatro Comunale contemporaneamente, uno in platea e l’altro sul palcoscenico, dando a ogni spettatore la possibilità di sceglierne uno o tutti e due. E’ una produzione sollecitata e sostenuta dalla città di Ferrara, assieme al Santacristna Centro teatrale presieduto da Roberta Carlotto. Una iniziativa fuori delle logiche correnti nel mercato teatrale, ma che ha saldi punti di riferimento nella vita artistica di Luca Ronconi.
Ferrara è patria di Ariosto, e quindi dell’Orlando furioso; e Amor nello specchio di Andreini è stato realizzato qui cinque anni fa, rifratto e “smerigliato” dal palazzo dei Diamanti. Poi c’è l’affezione del regista per i grandi classici della letteratura riscritti per il teatro; e quella di Botho Strauss è una delle poche scritture contemporanee a esser già stata messa in scena con Besucher una quindicina di anni fa. Inoltre si tratta di due testi legati in un’unica progettualità: suggestioni in ordine sparso che pure fanno rientrare istintivamente, e a pieno titolo, questa nuova esperienza spettacolare nel gusto e nella storia creativa di Luca Ronconi. Compreso l’inizio del lavoro, avvenuto presso la scuola teatrale di Santa Cristina, nelle grandi aule bianche quasi monacali per la sobrietà, dove il silenzio della campagna umbra è ancora attutito dai pavimenti di legno, nel più severo e vissuto campus a tempo pieno che il teatro italiano conosca. E’ nelle pause tra le sedute e i pasti in comune che Luca Ronconi parla del suo progetto.

Dove nasce l’interesse di Ferrara a farti lavorare sulla Odissea, quasi rendendo ferraresi le storie omeriche?
La richiesta viene proprio da Ferrara. Da quando cinque anni fa costruimmo a Ferrara Amor nello specchio, hanno continuato a chiederci un altro progetto. In particolare hanno chiesto di lavorare sull’Odissea, e ho capito che era la buona occasione per affrontare Itaca, che sarebbe piuttosto difficile da realizzare nei modi produttivi di un teatro stabile.

E perché?
Perché ad esempio il Teatro di Genova ci aveva pensato, ma nei modi produttivi di un teatro corrente, sia pubblico che privato, costerebbe assolutamente troppo. In questo modo invece il progetto è legato all’attività del Centro Santa Cristina, con l’opportunità di chiamare degli attori che hanno lavorato qui in questi cinque anni, che formano quasi per intero il cast di questo progetto. Vengono dalla scuola, anche se nel frattempo hanno fatto cose importanti altrove, e sono persone che hanno interesse a lavorare insieme. Questo rende possibile farlo. Il carattere dello spettacolo, del resto, deriva anche dalle condizioni e dalle persone con cui lo fai.

Ma l’Odissea prende corpo a Ferrara attraverso la riscrittura di Botho Strauss, che ha sollevato al momento dell’andata in scena a Monaco nei primi anni novanta, protagonista Bruno Ganz, polemiche fortissime, addirittura accuse di scelta reazionaria da parte dell’autore, da sempre schierato nella sinistra tedesca.
Itaca di Botho Strauss l’avevo letta qualche anno fa, appena è esistita una traduzione italiana.
Le sue singolarità sono espresse perfettamente dall’autore, che nella sua piccola prefazione dice di aver scritto il testo pensando a un lettore che mentre legge l’Odissea contemporaneamente la proietta sul palcoscenico, e a questa lettura si sovrappongono quindi continuamente una serie di osservazioni, riflessioni, chiose, memorie. Il fatto che trovo più interessante è come questo testo sia contemporaneamente rilettura di un classico, ma disseminato di altre ipotesi che vi si sovrappongono, così da non risultare una “interpretazione” univoca di un testo classico, ma da mantenere tutta la libertà della lettura.

Il tuo racconto fa pensare quasi a delle proiezioni, che si irradiano dal testo…
Sì, o degli squarci continui, che si aprono parallelamente alla lettura, o nel suo corso, come fossero continue divagazioni.

A fianco a Itaca però, c’è anche un frammento dell’Odissea originale….
Sì, ho pensato che fosse giusto così, da quando ho cominciato a lavorarci con un piccolo gruppo di attori un anno fa. Se veramente Itaca è anche una sorta di “portafogli”, uno schema drammaturgico che diviene talvolta frammentario, ho voluto aggiungervi un complemento. Itaca, non so se al momento della pubblicazione, ma certo al momento della rappresentazione in Germania, è divenuto un testo dai connotati politici molto decisi. Che non a caso sono emersi al momento della rappresentazione molto più forti che al momento della scrittura. Per questo mi è sembrato interessante opporci qualcosa di complementare, quasi un altro pannello di un dittico, che leggesse invece brani dell’Odissea da un altro punto di vista. Non quello storico e politico, ma ad esempio letterario e sapienziale. Emanuele Trevi mi ha proposto di mischiare alcuni episodi dell’Odissea al saggio di Porfirio, che come tutti sanno (ma io non lo sapevo, prima di leggerlo) è un commento, anzi un’interpretazione. O meglio ancora un tentativo di sciogliere l’enigma che dei sapienti si pongono, attorno ad alcuni versi del poema omerico che descrivono l’Antro delle ninfe davanti al quale Ulisse si addormenta appena arrivato a Itaca, e dentro al quale nasconde i tesori dei Feaci. La “cerniera” tra i due spettacoli è che Itaca inizia con il risveglio dell’eroe dal suo sonno, mentre L’antro delle ninfe ha luogo proprio durante quello stesso sonno. Quel momento del sonno al suo ritorno, fa da elemento di cerniera tra i due spettacoli.

Ma i due spettacoli sono per lo spettatore indipendenti uno dall’altro?
Assolutamente: non è affatto necessario questo complemento, che io ho voluto, ma che non è certo imposto al pubblico, che può assistere liberamente a uno o all’altro.

Da come si viene scoprendo il meccanismo creativo, appare un percorso che parte dalla tua scelta, tra tante riscritture recenti del mito di Ulisse, di quella di Botho Strauss. Ma poi hai scelto di affiancare a questo testo un’altro, e Emanuele Trevi suggerisce il commento di Porfirio all’Antro delle ninfe, così che la drammaturgia che ne risulta è complessa, ma anche plurima, frutto di molteplici apporti, a voler indagare il processo creativo.
Sì, ma è un processo che mi sembra anche coerente con la materia dell’Odissea.

Che non si sa infatti se sia stata scritta da un solo autore, o magari da una donna come sostiene una tesi affascinante del novecento. Ma l’Odissea è stata scritta e riscritta da molti, in particolare nell’ultimo secolo che sull’eroe si è sbizzarrito. Un eroe tanto razionale e acuto, da far finire però i due poemi omerici con orribili massacri.
In Itaca (ma anche nell’Odissea) Ulisse risulta fortemente condizionato dalla volontà di Atena, che lo ispira e lo aiuta nella sua missione.

Ma se Atena è la divinità della ragione, questo vorrebbe indicare dove la ragione può condurre?
Bisogna vedere quale tipo di “ragione”, perché sappiamo che esiste una ragione pura, una ragione dialettica, una ragion pratica…

Pirandello ci metterebbe pure La ragione degli altri…
Indubbiamente la “ragione” di cui parla Atena è una ragione politica, mentre il solo termine “ragione” risulterebbe generico.

L’Odissea è nella letteratura classica il prototipo di tutti quanti i “ritorni”, i nostoi. Ma è un “ritorno” di cui questa doppia lettura teatrale svela luci e ombre.
In Itaca il ritorno di Ulisse, privato di tutta la parte precedente di viaggi, è un ritorno invocato da un territorio: il pastore Eumeo o la nutrice Euriclea sono personaggi popolari, ma non presentati nella luce in cui ad esempio Brecht li avrebbe presentati: sono personaggi che invocano un ritorno all’ordine…

Un ritorno all’ordine del passato…
Sì; e non a caso si insiste molto, nel testo di Strauss sul fatto che Ulisse sia un vecchio, qualcosa che era stato sostituito nel potere dai Proci, le cui decisioni a loro volta appaiono segnate da irresponsabilità, avventatezza, voglia di edonismo a qualsiasi costo. La commedia presenta un mondo in preda al disordine. E qui scatta l’interessante discrimine di una interpretazione: auspicio o rischio, di un ritorno autoritario? E non sto a specificare quale è la nostra interpretazione, che spero esca chiaramente dallo spettacolo: la presentazione del rischio, e non certo l’augurio che il “ritorno” avvenga in quei termini.

E’ un discrimine che al momento dell’andata in scena del testo in Germania, ha attirato molte contestazioni addosso a Botho Strauss. Nella rappresentazione dell’Antro delle ninfe invece quel “ritorno” non c’è, si ferma prima che avvenga o si prospetti.
Lì infatti non si parla di Itaca, ma solo dell’Antro. L’indagine sui significati dei versi enigmatici che descrivono l’antro, dà l’impressione che il viaggio di Ulisse sia stato quasi un pellegrinaggio orfico. Un viaggio misterico, non tanto a fini “espiatori” rispetto a delle colpe, ma per una necessità assoluta di purificazione. Così i due testi in scena si trovano a divergere: mentre Itaca va verso il presente, L’antro al contrario cerca di recuperare una sapienza passata.

Da quello che dici, il caro vecchio Ulisse, astuto e spregiudicato nei ricordi ginnasiali come colui che si ingegnava a far vincere la guerra all’esercito degli Achei, ora diventa la punta di una grande contraddizione. Si può parteggiare per lui che riporta la giustizia a Itaca, ma consapevoli che l’ordine che lui riporta è quello del passato…
Molti commentatori dell’Odissea hanno sottolineato l’efferatezza dell’uccisione dei Proci, che ha molti tratti della vendetta piuttosto che di una pulizia etica, e “repulisti” del resto è sempre stato un termine molto antipatico.

Un termine piuttosto sospetto, e negativo. Anche se “repulisti” rimanda a una “pulizia” dell’anima che può far parte di un itinerario religioso… Prima, riferendoti ad Atena, tu hai parlato di “ragione politica”. Del resto Ulisse in entrambi i poemi omerici, ha proprio il ruolo della forza della politica, che non è la bruta forza degli eserciti di Agamennone, ma la lucidità di un progetto. Come è successo molte volte, i tuoi spettacoli, magari preparati e previsti da anni, si trovano al momento dell’andata in scena nel cuore di problemi brucianti (un esempio clamoroso per tutti Gli ultimi giorni dell’umanità che si trovò a coincidere con la prima Guerra del Golfo). Ora metti in scena questa contraddittoria e critica arte della politica, mentre si inabissa nel nostro paese il rapporto fiduciario tra i cittadini e la classe politica, la “casta”.
Torno a ripetere che quella offerta da Botho Strauss non è una interpretazione: il suo testo ci dà degli squarci, delle ipotesi, delle osservazioni. E forse è stato proprio questo il motivo delle accuse violente che gli sono state rivolte in Germania, perché il suo procedere “per lampi” anche contraddittori, mal si coniuga con la proverbiale “coerenza” tedesca. C’è una brevissima scena del testo di Strauss, che io del resto seguo fedelmente, in cui lui intravede per un attimo i Proci come una pericolosa degenerazione della democrazia. Ci sono notazioni, anche molto rapide e non presenti nell’Odissea originale ma desunte da lì, per cui non ci può essere più un’opposizione come nei tempi antichi. Sono piccoli blitz, che accennano ad altre cose, ma poi permettono di assistere al racconto di qualcosa che non c’è più. Una rappresentazione del classico come qualcosa di molto distante, e questo porta anche elementi di emozione forte. Tante volte mi è capitato di dire che l’interesse dei classici non sta tanto nel “rivitalizzarli” attualizzandoli, ma piuttosto nel farci sentire la distanza che ci separa da loro: quanto ce ne siamo allontanati, ma anche cosa si è perduto nella lontananza.
Tutto questo nel testo di Strauss c’è. E la sua ricchezza sta proprio nel continuo trasferimento, senza nostalgia e rimpianti “poetici” (anzi con un testo secco e asciutto), a cosa poteva essere quel mondo perduto.

La riscrittura dei classici da parte di Botho Strauss è diversa da tutte le altre, da autori che anche tu hai frequentato come Savinio…
Sì è molto diversa.. Non si tratta del “trasferimento” dell’Odissea ai nostri giorni, siamo lontanissimi dalle operazioni di Giraudoux o di Savinio.

O Christopher Morley, con le schiave in peplum e tacchi a spillo…
Operazioni tipiche del novecento: rivedere il passato con un occhio lucido e ironico, secondo una psicologia, che qui invece non esiste proprio. Qui tutto è ricondotto alla lettura. E la rappresentazione cerca di attenersi al fatto che non si racconta l’Odissea, ma la sua “lettura”, come è chiarissimo col testo di Porfirio. Da qui una certa “freddezza”…

Anche se tra fascinazioni e paure di quel che si vede “leggere”, c’è una sorta di ponte che va dal passato al nostro futuro
Ma questo, ripeto, non è il nostro passato, guardando il quale spesso ci rendiamo conto di cosa è successo, e anche di errori fatti o di equivoci in cui si è caduti, di sventatezze o approssimazioni.

Da quello che sei andato raccontando, emerge tra i due spettacoli una sorta di “effetto specchio”, quasi un rapporto fisico diretto.
In realtà sono indipendenti, ma legati, perché alcuni attori sono in tutti e due: Elena Ghiaurov ad esempio è in uno Atena e nell’altro Circe. Ma a Ferrara quel rapporto i due spettacoli lo hanno, mentre a Milano e Torino sarà impossibile. Infatti gli spazi in cui si svolgeranno sono separati: lo Strehler e lo Studio a Milano, due ambienti delle Fonderie Limone a Torino. A Ferrara essendo uno in platea e l’altro sul palcoscenico del Comunale, i due ambienti comunicano, e ci potrebbe essere un momento in cui i pubblici si rendono conto che al di là del diaframma costituito dal sipario di ferro, si sta svolgendo qualche cosa.

E’ una autorizzazione a raccogliere quindi le suggestioni che vengono da oltre il sipario tagliafuoco?
Certo, dal momento che ne viene offerta la possibilità, anche se riguarda solo Ferrara. Ma queste non vogliono essere chiavi di lettura, i due spettacoli sono solo “complemento” l’uno all’altro, un’altra “ipotesi” per rimanere a Strauss… Io penso che tutto sia relativo, e che non vi siano certezze, neanche delle proprie opinioni: l’ipotesi dell’Antro delle ninfe è semplicemente suggestiva, siamo lontanissimi ormai da quel tipo di sapienza, ormai perduta per sempre. E’ solo un’ipotesi di lettura.

Siamo comunque di fronte a un parto creativo “plurigemellare”, che è una tua antica tradizione, dentro lo stesso titolo per Orlando o XX, articolato in titoli diversi nel Laboratorio pratese o nel Progetto Domani. Spettacoli diversi e autonomi, ma legati a stretto filo.
Per me è una convinzione insopprimibile: la rappresentazione sta anche altrove; quello che si cerca sta da un’altra parte, come spesso anche quello che si vuole comunicare. Sappiamo tutti che l’informazione corrente ci mette nella condizione di dover riconoscere che c’è sempre qualcosa che ci sfugge….

Itaca è il luogo del ritorno dell’eroe di Troia, e del ripristino del suo regno. I ritorni però non si collocano nella storia, ma prima di essa. O alla sua fine. La pace universale, la terra promessa, il Regno di David, l’antico ordine delle stirpi, la Città Santa, il Tempio, il culto: la ricostituzione di ogni cosa, il tempo escatologico che si trasforma in tempo delle origini, come annuncia il senso religioso dell’attesa nella tradizione tardo ebraica.
Né diversamente si conclude la narrazione del ritorno di Ulisse, ovvero con un nuovo mitico ritorno alle origini. L’Utopia che il nostro tempo ha perso può essergli restituita dalla religione in forma di apocatastasi, di ricostituzione del tutto.
“La difficile parola ogygion, spesso resa col termine ‘originario’, sembra designare in modo vago le cose al di là del tempo e dello spazio, si protebbe dire il tesoro nascosto alla fine dell’arcobaleno. E sempre ogygion è il luogo di riposo in cui Cronos attende il tempo del proprio ritorno” (De Santillana, Von Dechend, Il mulino di Amleto, 2003, p. 184.) Ogigia è anche l’isola della lunga sosta di Ulisse dalla ninfa Calipso, da cui però respinge l’offerta di ricevere l’immortalità.
Avremo un’ora o più di musica, quasi un’opera, ma solo per la scena del riconoscimento, act of recognition, la musica di quei momenti in cui pur negando si intuisce, o ci si inganna pur cercando di capire, momenti lunghi e lungamente gustati. Ad esempio, lo sguardo ormai spossato dall’attesa adombra come un velo sull’uomo tanto atteso, e così Penelope non riconosce, non sente la presenza dello sposo che ritorna; ma da quello stesso velo ingannatore inizia una trasfigurazione del ricongiungimento; oppure l’incontro con l’estraneo di Creta fin dall’inizio è avvolto da un potente incantesimo suscitato dalla presenza di colui che ritorna: “Solo la regina poteva così poco sentire o vedere; / Giacché Athena le distoglieva il cuore…” (XIX, 470).
La percezione del compagno le sfugge, oscilla tra quel che l’occhio percepisce e la memoria : “Non si capisce come potrebbero incontrarsi i due coniugi in quelle condizioni” (Schadewaldt). Il riconoscimento non avviene all’improvviso, come se a Penelope cadessero le bende dagli occhi; i veli dell’oblio, degli inganni e delle delusioni cadono lentamente, dopo essersi accumulati attorno ai due amanti in venti anni di separazione.
Rileggendo il capitolo su Ulisse di ‘Dialettica dell’Illuminismo’ di Adorno colpisce un ‘parlando’ come a procedere tra i propri pensieri, una tessitura di riflessione ripiegata su di sé, che può usare, fagocitare e far proprio tutto, e tutto mette in discussione. L’atteggiamento formale procede per continue esclusioni e piccole assolutizzazioni, troppi sono i ‘soltanto’ e i ‘mai’ che si dicono. “Lo scaltro eroe si salva soltanto al prezzo della rinuncia ai propri sogni”. E la rinuncia ai sogni si dimostra poi utile al cospetto delle sirene. “Ulisse, tecnicamente edotto, riconosce il potere arcaico della melodia e si fa legare.” Se una coscienza moderna si avvicina in modo così spudorato a un oggetto tanto lontano da noi, sia nel tempo che per caratteristiche intrinseche, c’è il rischio di cadere nella comicità involontaria. E presto ci si imbatte nell’assurdità più profonda del dilemma : l’incapacità di misurarsi con le parole del mito, a credere quando bisogna credere e invece criticare ciò che è degno di critica.
Sintesi di Adorno: Ulisse è un artigiano che si costruisce un letto di ulivo nel tempo libero. “Come prototipo di cittadino ha nella sua scaltrezza un hobby. Che consiste nella ripetizione del lavoro artigianale da cui lui, da tempo, è necessariamente escluso per le condizioni sociali evolute della proprietà.” Qui, al massimo, il moderno evemerista va incontro al noto riso omerico.
E però si scopre, di questo metodo, la cellula germinale della riduzione. Quella che tende a ridurre ogni cosa al proprio livello. Sempre e soltanto riflessione, mai la ripetizione, la partecipazione, il ricordo.

Traduzione di Roberto Menin

Nel capitolo IX del celebre trattato anonimo Del sublime (I secolo a.C.) viene data per sicura una notizia su Omero che, se non ha basi scientifiche, è comunque affascinante dal punto di vista poetico e psicologico. A differenza di altri studiosi e grammatici antichi, per il geniale saggista che analizza vari esempi antichi di sublime, l’Iliade e l’Odissea sono entrambe opere di Omero. Ma c’è una differenza sostanziale, che spiega nella maniera più semplice e umanamente logica le differenze di tono e d’impostazione dei due poemi. L’Iliade (che tanti secoli dopo Simone Weil avrebbe definito «il poema della forza») è l’opera di un uomo giovane, in qualche modo affine per nobiltà e coraggio ai suoi stessi eroi, simile addirittura a «un uragano che soffia sulle battaglie». Sarebbe difficile dare torto al critico antico, che subito dopo queste affermazioni, per contrasto, evoca l’Odissea. Non solo questo secondo poema racconta eventi posteriori alla guerra di Troia, e dunque ha per presupposto logico e cronologico l’Iliade, ma è anche vero che, considerate nel loro assieme, le avventure di Ulisse hanno un carattere totalmente diverso. E’ tipico dei grandi geni, infatti, col sopravanzare dell’età, un amore per le storie più incredibili e gli intrecci narrativi più complicati. E dunque, mentre l’Iliade è piena «di dialoghi e di azioni», nell’Odissea prevale un carattere romanzesco che è «caratteristico della vecchiaia». E’ ancora grande come un sole, Omero, ma, conclude l’Anonimo, è un sole al tramonto, «meno ardente».
Non saprei dire se questa strana osservazione del trattato Del sublime, che l’invecchiare comporta un maggior amore per le storie lunghe e complicate, sia ancora valida per l’uomo d’oggi. Quello che è certo, è che le avventure di Ulisse, molto più di quelle di qualunque altro eroe mediterraneo, sembrano nascondere giacimenti di saggezza che non basteranno i secoli a portare alla luce ed esaurire. Alla lettera del testo, e alla probabile volontà dell’autore si intreccia allora, senza potersene più staccare, la storia infinita della sua interpretazione. Ogni generazione scava nel testo nella maniera che le è possibile e consona, spronata da bisogni e desideri particolari e irripetibili. E puntualemente, a produrre le scintille di senso più imprevedibili e illuminanti sono le età più inquiete, quelle in cui la velocità delle transizioni può apparire come un disordine universale, mentre l’angoscia si diffonde come un’epidemia. Nel III secolo della nostra èra, a incarnare alla perfezione questa lettura in stato d’emergenza sono i cosiddetti filosofi neoplatonici. Non solo Plotino e i suoi seguaci sono gli ultimi pagani in un mondo sempre più cristiano; la loro distanza storica da Omero è ormai un abisso, né più né meno, in fondo, che la nostra. Eppure, per questi pensatori sempre inclini alla malinconia, le parole dei poeti sono il ricettacolo, il rivestimento scintillante di una sapienza arcana e segreta. Non a caso i primi poeti, come Orfeo, intrattengono con il divino rapporti impensabili per l’umanità normale. Come il profeta, il poeta e il suo linguaggio stanno al confine tra il mondo degli dèi e quello degli uomini, tra il qui dove siamo imprigionati e il là che non possiamo raggiungere. E in quanto tale, questa sapienza dei poeti e dei profeti è fuori dal movimento del tempo, dalle angustie del divenire. Il segreto nascosto sotto la scorza è una verità inviolabile, immutabile, che si rende presente al saggio che è capace di coglierla, che ha avuto la pazienza e la dedizione necessarie a trovarla – non importa quanti secoli siano passati tra lui e il poeta. Tra tutti i poemi degli antichi, quelli di Omero sembrano i più vicini alla lingua impronunciabile degli dèi – che non è altro che la lingua della verità. Le avventure dei suoi eroi sono pura e incorrotta sapienza, ammantata nel velo iridescente di una storia. Ed ecco che Plotino, quando esorta il sapiente a fuggire dal mondo delle illusioni e delle apparenze, in direzione della sua vera «patria», del suo vero «Padre», ricorre con naturalezza alle avventure di Ulisse per rendere evidenti i suoi concetti, facendo del poema un’immagine dell’esistenza umana nella sua totalità. E dunque, quell’Ulisse che racconta «di essere sfuggito alla maga Circe e a Calipso», cioè «i piaceri della vista» e «le bellezze sensibili di ogni genere» (Enneadi, I 16), a buon diritto può essere il simbolo, la guida fantastica del percorso di liberazione che è il vero fine della filosofia – o se si preferisce della vita.
Anche Porfirio, che di Plotino fu l’allievo più laborioso e fedele, vedeva in Omero, oltre che il più grande dei poeti, un sapiente e un teologo a tutti gli effetti, come Mosé e Platone. Ancora giovane, aveva composto un commento dell’Iliade e dell’Odissea. Nato a Tiro (circa nel 232), aveva una mente enciclopedica, conosceva la musica e la medicina, le storie degli dèi e quelle degli uomini, l’astronomia e la morale. Tutto questo non lo tenne al riparo da una depressione così forte da indurlo spesso al desiderio di farla finita. In fondo, molto più della sua opera, è questa depressione il fatto più famoso della sua vita, visto che la notizia, tramandata dagli antichi biografi, ispirò Giacomo Leopardi per una delle sue più belle e profonde Operette morali, intitolata appunto Dialogo di Plotino e di Porfirio, forse la più notevole e originale meditazione sul suicidio di tutta l’età romantica. Porfirio ad ogni modo sembra essersela cavata insistendo nei suoi studi e sposando Marcella, una vedova che già aveva sette figli – decisione del tutto originale tra i filosofi dell’epoca, che gli attirò critiche e feroci sarcasmi. Come per il suo maestro, anche per Porfirio lo scopo del pensiero era essenzialmente quello di ritirarsi in sé, fuggendo agli inganni delle apparenze, rinunciando al molteplice a favore dell’Uno, come Ulisse rinuncia alle bellezze del mondo e al diletto dei sensi fermo nel suo desiderio di tornare ad Itaca. Sono questi i presupposti impliciti del trattatello conosciuto sin dall’antichità con il titolo L’antro delle Ninfe, nel quale Porfirio scava all’interno di una porzione ben delimitata dell’Odissea, non più che una scheggia di una decina di versi (dal 102 al 112) del Tredicesimo Libro. Ovviamente, il frammento non è scelto a caso e Porfirio si addentra negli esametri di Omero come in una miniera di arcana sapienza. Non minore sorpresa delle avventure di Ulisse, per l’interprete, desta il fatto che sia esistito un uomo come Omero, così vicino alle ragioni prime, al segreto essenziale delle cose.

Porfirio punta le sue carte sui particolari, e scrive per lettori capaci, come lui, di evocare immediatamente l’insieme a partire dal dettaglio, senza bisogno di riassunti. E dunque quei versi che descrivono una grotta in un porto di Itaca, un luogo sacro alle Ninfe, Porfirio e i suoi lettori sanno benissimo che appare nel poema di Omero a un momento fondamentale di svolta. Scortato da Feaci, unico dei suoi ad essere sopravvissuto alle peripezie, Ulisse ha appena compito l’ultimo segmento dei suoi viaggi, approdando a Itaca. Si conclude la prima parte del poema, quella delle peripezie dell’eroe e dei suoi compagni, e inizia la seconda, nella quale l’eroe, fatto ritorno a Itaca, deve sconfiggere in nemici che si sono insediati nella sua casa. L’episodio in questione, l’arrivo di Ulisse all’antro delle Ninfe, è la cerniera, il punto di giunzione fra le due parti del poema. E’ un momento narrativo saturo di mistero, a partire dalla circostanza che Ulisse, dopo tanti anni di esilio, e dopo aver agognato in modo così struggente le sponde della sua patria, per tutto il viaggio e anche dopo l’arrivo è privo di coscienza. E’ un «sonno profondo», il suo, dice Omero, «continuo, dolcissimo, assai somigliante alla morte». Soprattutto, anche se il poeta è reticente in proposito, questo non è un sonno normale. La storia della sapienza greca conosce questi sonni di sapore iniziatico, sciamanico, come quello del saggio cretese Epimenide, che mandato dal padre, ancora ragazzo, a sorvegliare il gregge, dormì in una grotta per cinquasette anni, imparando nel sonno a conoscere gli dèi e le loro storie. Fatto sta, che Ulisse è ancora immerso nel suo sonno «somigliante alla morte» al momento dell’approdo, e, fatto ancora più strano, i Feaci sono costretti a lasciarlo a terra come un corpo morto, avvolto nel lenzuolo di lino su cui si era addormentato.
Nulla più di questo sonno sciamanico, di questa morte apparente, può corrispondere al carattere sacro dell’antro delle Ninfe. La condizione di Ulisse (il sonno) e la natura sovrannaturale della grotta cooperano concordemente a quello che per Porfirio è un rito di iniziazione. In ogni iniziazione, è in gioco l’idea di una morte e di una rinascita, che coincide con la visione, con l’esperienza diretta del mistero. Ogni iniziazione, inoltre, si serve di simboli, che sono sì rappresentazioni dell’invisibile, ma anche oggetti concreti, situazioni reali. All’inizio del suo trattato, riferendo diligentemente le opinioni di alcuni geografi, Porfirio insiste sul fatto che quella grotta sia un luogo reale, non un frutto arbitrario della fantasia di Omero, costruito apposta dalla fantasia per riempirlo poi di significati ed allusioni. Per Porfirio, è un punto fondamentale: quanto più un luogo è vero, o un evento è effettivamente accaduto, tanto più l’allegoria sarà un procedimento efficace. Se Omero sa vedere oltre la realtà, cogliendone il significato più segreto, la sua storia ha pur sempre a che vedere con la realtà, è una storia di luoghi concreti e di fatti realmente accaduti. Solo a patto di essere un uomo in carne e ossa, prigioniero di un sonno che lo riduce a pura e inerte gravità, a un corpo abbandonato su una spiaggia, Ulisse è simbolo più credibile dell’umanità. E solo perché è un luogo reale, una porzione ben delimitata del mondo concreto, la grotta delle Ninfe del mondo è anche un’immagine, un tempio – la conquistata evidenza, la miracolosa messa in scena di tutti i significati segreti, di tutti i destini possibili.

Walter Benjamin, parlando dei compito dei traduttore, ha osservato che “mai di fronte a un’opera d’arte o ad una forma artistica, si rivela fecondo per la sua conoscenza il riguardo a chi la riceve. Non solo ogni rìferimento a un pubblico determinato o al suoi esponenti porta fuori strada: ma anche il concetto di un ricettore ‘ideale’ è nocivo” (1). La conclusione di Benjamin, che la traduzione non deve tener conto dei lettore, così come non ne tiene conto la poesia originale, è in realtà fuorviante.
Cito Benjamin solo perché il suo punto di vista è il più distante dal mio nel tradurre l’Odissea: tale distanza mi permette di articolare più chiaramente il discorso sul mio modo di tradurre.
Inizio con una precisazione. Negli uItimi ottanta anni la critica ha ribadito che prima dell’Odissea esistettero dei canti, rielaborati poi nel poema, riguardanti alcuni singoli episodi: questi canti furono talora improvvisati oralmente, talaltra eseguiti a memoria, da aèdi o cantori, a richiesta proprio dei pubblico presente, il quale, con le sue reazioni, condizionava l’aèdo. Ovviamente, oltre che dal pubblico, l’aèdo era condizionato da se stesso, ed era di se stesso e della sua opera il primo pubblico e il primo giudice.
Benjamin ha, invece, ragione nell’equiparare il traduttore all’autore. Ma per una ragione che egli non ammette: per la ragione che il traduttore lavora anch’egli “or da coppa or da ciglio”, cambiando continuamente posto. Anch’egli, al pari dell’autore, è come un giocatore solitario di scacchi, che prima “siede e muove” da un lato dei tavolo, e poi “siede e muove” dal lato opposto. Fuori similitudine: che prima traduce un passo, e subito dopo cambia ruolo e saggia la traduzione del passo che ha tradotto. Sulla sua traduzione influiscono in modo determinante la sua competenza e la sua cultura, il suo gusto e il suo giudizio. A sua volta la sua cultura dipende in buona parte dalla cultura del suo tempo. Un traduttore non può eludere la critica dei suo tempo. Un traduttore attuale dell’Odíssea non può eludere la domanda principale e preliminare: in quale ottica la critica colloca oggi l’Odissea, in quanto opera di poesia?
A me è parso, e continua a parere, che la critica collochi ancora l’Odissea nell’ottica che fu proposta da Hegel quando teorizzò l’equivalenza fra epos antico e romanzo moderno, e definì il romanzo una “moderna epopea borghese” (2).
Per il lettore moderno e per la critica, che del pubblico rappresenta il fronte più avanzato e consapevole, l’Odissea è un antico romanzo. E’ il romanzo dei valore individuale e dell’intelligenza pratica; dell’avventura lontana, fra uomini, mostri e dèi, e dell’avventura domestica, fra pretendenti, servi e mendicanti. E’ il romanzo dei giovane che diventa uomo, della fanciulla che sogna le nozze, della donna che aspetta il marìto. Ed è il romanzo dell’alterno destino e della costanza. Ma soprattutto è il romanzo dei romanzi, dove l’aèdo Demòdoco canta di Odìsseo davanti a un ignoto straniero che è Odìsseo stesso; dove l’eroe racconta le sue avventure e altre ne inventa, assumendo altri aspetti e pur rimanendo sempre lo stesso Odìsseo, astuto e paziente.
Val la pena ripeterlo: l’Odissea non fu composta da un poeta che ignorasse il suo pubblico. Prima dell’autore che compose il poema nella forma definitiva in cui lo leggiamo, vi furono i molti aèdi e rapsòdi che trattarono quegli stessi argomenti in occasione di feste pubbliche e private: nei santuari degli dèi, nelle piazze di città e villaggi, nelle case della classe dominante, dove essi, a richiesta dei pubblico, prima (nei tempi più antichi) cantavano, poi (in tempi meno antichi) cantilenavano, e infine (in epoca storica) recitavano (improvvisando o a memoria) i racconti dei loro repertorio. Il linguaggìo che essi usavano ‑ ionico con elementi eolici, stilisticamente e lessicalmente composito e stratificato – era il prodotto di una lunga evoluzione. Era ed è una Kunstsprache o “Iingua d’arte”ricca di segmenti formulari governati dall’analogia e dalla simmetria ritmica: una “Iingua d’arte” compresa da tutti i Greci d’ogni luogo e classe.
Una traduzione che voglia dar conto della comprensibilità dell’Odissea in ogni luogo dei mondo greco e a tutti i livelli, e che voglia rispettarne il carattere di “antico romanzo”, non può che essere una traduzione in prosa: soprattutto in questo nostro tempo, in cui la stessa poesia italiana rifiuta le rime, i versi e le forme della sua centenaria tradizione poetica. Dunque, una traduzione senza isosìiiabia e senza un ritmo preordinato: ma non per questo una prosa senza ritmo. Anzitutto perché ogni prosa ha un ritmo; in secondo luogo ‑ e a maggior ragione ‑ perché una caratteristica dell’epica greca arcaica, a differenza del romanzo moderno, è la ripetitività, con tutte le consonanze che da essa scaturIscono.
Io mi limito, qui, a citare una felice distinzione proposta da Northrop Frye nella sua Anatomia della critica. Premetto che per Frye il termine epos indica “Il genere letterario in cui il radicale di presentazione è l’autore o menestrello o dicitore, il quale ha davanti a sé un pubblico che lo ascolta”. Secondo Frye, “Ia regolare scansione metrIca che distingue tradizionalmente il verso dalla prosa tende a diventare il ritmo organizzativo dell’ epos”. Frye riconosce nell’epos il ritmo della ricorrenza e nella prosa il ritmo della continuità: “in ogni poesia ‑ egli scrive ‑ avvertiamo la presenza di almeno due ritmi ben distinti. Uno è il ritmo ricorrente ( … ) formato dall’accento, dal metro e dallo schema dei suoni. L’altro è il ritmo semantico o dei significato, quel che di solito si ritiene il ritmo della prosa” (3).
E’ molto significativo che l’epica greca arcaica abbia un grado di ripetitività elevatissimo: non soltanto è ripetitivo il ritmo metrico, ma è ripetitivo anche il ritmo semantico. La novità più saliente ‑ e in qualche misura rivoluzionaria ‑ nella critica omerica degli ultimi ottant’anni è la scoperta della formularità ad opera di Milman Parry (4).
Secondo la nota formulazione di Parry, la formula è “un gruppo di parole usato regolarmente, sotto le stesse condizioni metriche, per esprimere un’idea essenziale”. Omero, cioè, per esprimere una determinata idea, usa spesso le stesse parole, raggruppate secondo una stessa successione ritmica e collocate, nel più dei casi,nella stessa sede dell’esametro. Ritmo metrico e ritmo semantico nella formula si corrispondono, potenziando al massimo l’effetto della ripetitività.
Appunto perché la formularità è una delle caratteristiche fondamentali dell’epica arcaica, il traduttore dell’Odissea è tenuto a riprodurre tutti i segmenti formulari che gli è possibile riprodurre senza offendere l’assetto del testo e la sensibilità dei lettori. E poiché sarebbe contraddittorio, e creerebbe durezze e discontinuità, riprodurre le formule (che sono segmenti con valori ritmici e semantici ricorrenti) senza imprimere ai periodi, alle frasi, e molto spesso al rigo, un andamento ritmico ripetitivo come quello originale (con la successione degli esametri e delle formule), è ovvio ed è inevitabile che un traduttore fedele e ispirato” dovrà estendere questa stessa dinamica sfilistica a tutta la traduzione.
Conciliare questi tre fattori (prosa, ritmo e formularità) non è cosa agevole. Nella fattispecie si tratta di accostare l’Odissea al lettore, rendendola prosasticamente familiare e comprensibile come un romanzo. E si tratta di allontanare l’Odissea dal lettore, collocandola nella sua remota prospettiva storica, e frapponendo fra lettore e poema quelle caratteristiche di ripetitività che sono proprie dell’epica greca arcaica, ma che sono estranee alla nostra sensibilità moderna. Sono due movimenti contrari: nel momento stesso in cui italianizza il greco, il traduttore deve grecizzare l’italiano.
E’ questa, del resto, l’operazione a cui pensava Goethe: “una traduzione che tenda ad accostarsi all’originale, finisce con l’accostarsi alla versione interlineare e facilita in grado elevatissimo la comprensione dell’originale, sicché veniamo condotti e addirittura spinti verso il testo‑base, e il cerchio, entro cui si muove l’accostamento tra estraneo e nostrano, tra noto ed ignoto, si chiude” (5).
L’operazione auspicata da Goethe per ogni traduzione, diventa un’operazione inevitabile quando alla traduzione si accompagna, sulla pagina opposta, il testo greco originario. Perché è bene dirlo apertamente: non esiste un solo tipo di traduzione, ma ne esistono vari tipi, non solo dal punto di vista della concreta realizzazione, ma anche dal punto di vista dei l’im postazione e della relativa teorizzazione. La traduzione con testo a fronte ha proprie caratteristiche e ha fini diversi da altri tipi di traduzione: essa deve essere leggibile autonomamente, ma deve anche aiutare chi ha una qualche conoscenza della lingua originale a leggere i versi corrispondenti del testo originale. La traduzione con testo a fronte non deve essere diversa da quella traduzione interlineare che filologi (come Wilamowitz), teorici (come Benjamin), critici (come Mounin), giudicano ‑ sulle orme di Goethe ‑ una meta suprema: le traduzioni delle Olimpiche e delle Pitiche di Pindaro create da Hoölderlin sono sublimi traduzioni interlineari.
E poiché, traducendo, alcune cose dell’originale vanno perdute senza che ne venga acquistata alcuna che non sia implicita nell’originale, non conviene sacrificarne nessuna senza un adeguato compenso. Per esempio, non conviene abolire i versi e scrivere in prosa continua: è, invece, più opportuno far corrispondere ‑ finché è possibile ‑ ad ogni verso un rigo e ad ogni elemento nominale o verbale un solo termine. Con questi accorgimenti si possono (a) articolare i segmenti ritmici, (b) evidenziare i nessi formulari, (c) rispettare il gioco degli enjambements. Il risultato, subito evidente, è la corrispondenza topografica fra il testo greco e il testo italiano. Con queste conseguenze: che il passaggio dall’italiano al greco risulta agevolato e la traduzione svolge sia il compito di rappresentare l’originale sia il compito di accostare all’originale.
Sono criteri generali e programmatici: dopo averli fissati resta da affrontare il testo greco: resta, cioè, da fare ancora tutto.
Problema fondamentale di ogni traduttore è di esprimere adeguatamente le valenze semantiche dei testo. Compito ovvio e risaputo, ma arduo. Per il traduttore dell’Odissea le difficoltà cominciano con la prima parola andra (accusativo di anér).
Il greco distingue fra anthropos e anér: e anche il latino distingue fra homo e vir. Ilprimo è un termine generico e indica l’uomo come essere umano ; il secondo è un termine specifico e indica l’uomo come maschio‑guerriero. L’italiano non distingue, e traduce i due termini con “uomo”. Chi non sa il greco e legge l’invocazione iniziale “narrami o Musa dell’uomo” può, equivocando, immaginare che l’Odissea non sia un poema eroico, ma un racconto allegorico sull’uomo, e che le peripezie di Odìsseo rappresentino le esistenziali peripezie dell’essere umano. Equivoco certo felice, se poi ispira a James Joyce un grande libro come l’Ulysses. Ma pur sempre un equivoco fuorviante e antiomerico. Chi conosce il testo originale, sa che nell’invocazione del proemio non ricorre anthropos ma anér. E sa che la Musa è invocata perché racconti le peripezie di un guerriero: tutta l’Odissea conferma che il poema narra di un guerriero esemplare, non solo forte e ardito, ma anche intelligentissimo, abile e paziente: narra di un reduce, di un re, che dopo molte sventure torna a casa, stermina i pretendenti e rioccupa il posto lasciato venti anni prima partendo.
Cosa significa questo? Significa che una traduzione non è mai dei tutto autosufficiente. E si può andare un passo più avanti, e dire che anche un’opera poetica non è mai del tutto autosufficiente: non lo è neppure il poema dantesco, che impone l’ausilio delle note. Ecco perché ogni traduttore è più tranquillo se la sua traduzione dispone di note. Ed ecco perché il traduttore, se è anche uno studioso di letteratura, sente l’urgenza di scrivere un saggio complessivo sull’opera che ha tradotto: un saggio che introduca alla lettura, che commenti in modo essenziale il testo e che implicitamente prospetti un bilancio della critica attuale intorno all’Odíssea (6).

(1) W. Benjamin, Schriften, 1955: trad. it. Angelus novus, Torino 1976, p. 37.
(2) G.W.F. Hegel, Vorlesungen uber die Aesthetik, 1836‑38; Aesthetik, 1955: trad. it. Estetica, Milano 1978, p. 1447.
(3) N. Frye, Anatomy of Criticism. Four Essays, 1957: Anatomia della critica, Torino 1969, pp. 482, 335, 351.
(4) M. Parry, L’épithète traditionelle dans Homère, Paris 1928.
(5) J.W. Goethe, nelle “Noten und Abhandlungen” apposte a Der west‑östlíche Divan, 1819, Gedenkausgabe IlI, Zürich 1948, 1959 (IIed.), p. 557.
(6) G.A. Privitera, IL ritorno del guerriero. Lettura dell’Odissea, Torino 2005. La mia traduzione (a) con note di vari studiosi, (b) senza note ma sempre con testo a fronte, è stata edita da Mondadori a Milano, 1981‑86, e negli “Oscar”, 1991.