20 Ottobre 2017

2008 / Luca Ronconi – Lezioni

Laboratorio per 13 attori professionisti.
Il corso si svolge presso la sede del Centro Teatrale Santacristina e si conclude con la presentazione al pubblico del lavoro presso la Chiesa di San Simone a Spoleto, nell’ambito del 51° Festival dei Due Mondi: non uno spettacolo, né un laboratorio, ma un ciclo di lezioni aperte. Un evento unico che permette di osservare il metodo di Luca Ronconi nel lavoro di interpretazione e nel processo di creazione che compie di volta in volta con gli attori.
Gli spettatori possono assistere ogni giorno a momenti diversi, scegliendo liberamente il tempo di permanenza e di osservazione di come Ronconi lavora con gli attori su alcuni brani scelti da diverse opere di Ibsen (Gli spettri, Casa di bambola, L’anitra selvatica, La donna del mare, Hedda Gabler )


Locandina/Programma
Luca RonconiLezioni

a cura del Centro Teatrale Santacristina
Spoleto, Chiesa di San Simone 3, 4, 5 e 6 luglio, dalle ore 17.00

con la partecipazione di
Francesca Ciocchetti, Pasquale Di Filippo, Alessandro Genovesi, Cristian Giammarini, Mariangela Granelli, Marco Grossi, Michele Maccagno, Stefano Moretti, Cristiano Nocera, Pilar Pèrez Aspa, Irene Petris, Olga Rossi, Umberto Terruso

con la collaborazione di
Caterina Botticelli, Claudia Di Giacomo (PAV), Luigi Laselva, Lucia Pascali, Juji – Servizi per lo spettacolo, e Roberta Carlotto

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Materiali
Intervista a Luca Ronconi a cura di Maria Grazia Gregori

Dopo molti anni e dopo alcuni spettacoli che per la scena italiana hanno significato un vero e proprio giro di boa nel modo di pensare teatro, di fare teatro e di rappresentarlo, Luca Ronconi ritorna a Spoleto. Con motivazioni diverse, con uno sguardo diverso: un ritorno che fa, come si dice in gergo, notizia. Spiega: “la nostra presenza a Spoleto 2008 non si concretizzerà in uno spettacolo ma avrà come protagonista l’Associazione Santacristina e il nostro modo di lavorare, di essere nel teatro. Una presenza del tutto normale, di casa la nostra, visto che Spoleto è in Umbria come pure Santacristina”.

Non uno spettacolo, dunque, ma una presenza: come si articoleranno le quattro giornate in cui sarete fra i protagonisti di questo Festival che si vuole riportare agli antichi splendori?
Non faremo uno spettacolo ma neppure delle prove aperte per qualcosa da realizzare fra breve. Per quattro giorni porteremo qui il nostro modo di lavorare, dal mattino alla sera, di confrontarci, lasciando le porte aperte per mostrare a tutti quelli che vorranno vedere quello che noi facciamo da quando siamo nati. Secondo lo Statuto che ci siamo dati la nostra Associazione ha nei suoi compiti istituzionali quello di produrre spettacoli e di tenere dei corsi. Ma come collante fra gli uni e gli altri c’è quella che considero la nostra identità più profonda: dare la possibilità a degli attori e a dei registi professionisti, più o meno giovani, di riunirsi per un periodo dell’anno a discutere, a ragionare, in un luogo accogliente, attorno a un tema che riguarda il nostro lavoro, ponendoci, di volta in volta, delle domande che possono essere di tipo tecnico, interpretativo, drammaturgico.

Spoleto però è un luogo legato alla memoria di alcuni suoi spettacoli memorabili da Orlando furioso a Orestea fino al discusso Spettri: spettacoli che hanno preso in contropiede il pubblico, grandi macchine rappresentative. Al contrario oggi lei, per il suo ritorno, fa una scelta minimalista, si direbbe che come Diogene vada alla ricerca di qualcosa…
Con Spoleto ho un rapporto fatto di affetti e di memorie. Ma questo non mi sembrava il momento di tornarci con uno spettacolo come mi aveva anche chiesto Giorgio Ferrara, il nuovo direttore al quale ho fatto la controproposta di venirci con gli attori e i registi che lavoreranno con me a Santacristina: un accordo che significa una nostra presenza, progetti finalizzati che certo potranno anche essere degli spettacoli. Ma non questa volta. Quest’anno, dunque, saremo qui con alcuni fra gli attori e i registi che hanno già lavorato con noi: pur non essendo uno spettacolo non sarà un puro lavoro a tavolino ma ci saranno dei momenti di verifica necessari per noi, dentro uno spazio, in una situazione. E in questo processo che si snoderà secondo un ordine del giorno che sceglieremo di volta in volta, i nostri visitatori si troveranno di fronte qualcosa di diverso: l’acquisizione di ipotesi e di esperienze che condivideremo con loro.

Che cosa l’ha determinata a sviluppare un lavoro così capillare che va ben oltre il concetto di formazione comunemente inteso: una vocazione pedagogica? Il sogno di fondare una nuova grammatica teatrale?
La curiosità. A me e agli attori con cui lavoro capita spesso di interrogarci su delle possibilità, delle necessità, che non sono sperimentabili quando tutto quanto il nostro lavoro è destinato a mettere in scena qualcosa. Non lo faccio per vocazione pedagogica anche perché non mi sono mai sentito un maestro: quello che noi cerchiamo va oltre il lavoro di formazione che tutti hanno già ampiamente acquisito essendo dei professionisti. Riguardo a quella che lei chiama grammatica teatrale la parola stessa “grammatica” mi sembra presupponga qualcosa di eccessivamente normativo. Per quel che mi riguarda, infatti, non ho mai pensato che il teatro dovesse essere fatto in un modo solo ma che piuttosto si dovesse strutturare, presentare come una somma di particolarità, di singolarità, destinata a cambiare nel corso del tempo. Vogliamo ragionare su questo?

Alle volte sembra che lei vada alla ricerca di un difficile punto d’incontro fra una tradizione teatrale importante ma superata e la sperimentazione: un punto mediano, forse una tradizione meno assertiva e nuova. Una cosa di cui non si parla nel nostro teatro…
Nel nostro teatro forse no, ma nei teatri del mondo si. Il rinnovamento non riguarda tanto lo stile ma la lettura, l’occhio che vede le cose e che non vuole solo cambiargli i connotati, ma mantenere la memoria di ciò da cui ci si stacca. Da questo punto di vista Santacristina è un luogo raro di discussione, di confronto, fra chi non si accontenta . È l’incontro di un gruppo di attori e registi professionisti, non omogenei fra di loro perché non sono una compagnia, ma che percepiscono il momento attuale come pieno di confusione e dentro il quale lo status dell’attore è profondamente ridimensionato. Oggi si assiste all’esplosione di una tipologia d’attore di derivazione televisiva e chi ha sempre considerato il lavoro teatrale indissolubilmente legato all’interpretazione si sente messo all’angolo.

Che fare allora?
Una risposta possibile è quella di cercare di dare al nostro lavoro un fondamento più profondo in modo che ci permetta di capire come muoverci, non solo per sentito dire. È indubbio che oggi molti attori che in un futuro prossimo dovrebbero costituire l’asse portante della nostra scena vivano un profondo malessere. Mettersi insieme e cercare anche di operare su queste difficoltà può servire. Malgrado queste considerazioni, però, non vivo negativamente questo momento: semmai mi sembra confuso, pieno di cose interessanti di cui non si riesce a intravedere il destino. Cose che non lasciano un segno perché manca o è in crisi quello che dovrebbe essere il centro, la spina dorsale del teatro.

Attorno a quali temi, a quali autori ruoterà il lavoro che mostrerete a Spoleto?
Lavoreremo su di un tema affascinante: gli scambi fra letteratura e teatro, come opere che nascono per la scena decadano dal punto di vista della rappresentabilità e si trasformino, nel corso del tempo, in letteratura e viceversa. È proprio da qui che nasce la domanda su come rapportarsi, da attori e da registi, con questo cambiamento. Punteremo dunque la nostra attenzione su autori logorati dalla tradizione nei confronti dei quali spesso sentiamo la necessità di prendere le distanze sia dal loro canone rappresentativo consolidato sia dal cercare di rinnovare a tutti i costi. All’inizio pensavo a tre o quattro autori, che poi ho ridotto ai soli Brecht e Ibsen, ma alla fine mi sono deciso per Ibsen che mi pare possa offrire più di una possibilità per approfondire, verificare quanto detto finora.

In che senso?
Nel nostro lavoro teatrale ci rapportiamo a dei canoni interpretativi tutto sommato abbastanza schematici: il brechtiano, lo stanislavskjiano, il psicologico, quello più legato all’improvvisazione, ecc. Ognuno di questi canoni nasce da un tipo di drammaturgia che tende a perpetuarsi. Ma mano a mano che la drammaturgia di riferimento invecchia – e da questo punto di vista il modello drammaturgico ibseniano ci sembra antiquato – richiede un rimodernamento difficile, se non impossibile da realizzare. Molto meglio, allora, cercare di vedere come delle figure che appartengono al mondo e alla società dei tempi di Ibsen – per esempio la Nora di Casa di bambola -, con il passare degli anni diventino delle figure mitologiche il cui legame con la vita reale si attenua mentre se ne stabiliscono altri. Mi sono sempre chiesto se in una drammaturgia estremamente compatta come quella ibseniana ogni commedia non sia, in realtà, un’altra storia “figliata” dalla precedente. Per esempio rispetto a Casa di bambola con i suoi due finali – Nora che se ne va, Nora che resta – che suggeriscono due destini diversi, un testo come “Spettri” dà l’impressione di essere stato scritto come risposta alla domanda “che cosa sarebbe successo se Nora invece di andarsene fosse rimasta accanto al marito prigioniera delle convenzioni?

Che itinerario intende seguire nel suo viaggio dentro la drammaturgia di Ibsen?
Lavoreremo costruendo un libro di appunti senza alcuna pretesa di continuità e sistematicità con l’intenzione di mettere in luce certi temi che si rincorrono in questo autore: il rapporto fra società e natura, l’infanticidio che è presente in “Hedda Gabler” (addirittura in una duplice veste : Hedda brucia, dunque “uccide”, il libro figlio di Lövborg, l’uomo da lei amato che l’ha delusa e poi mette contemporaneamente fine alla propria vita e a quella del bambino che porta in grembo) , nel Piccolo Eyolf e nell’Anitra selvatica, l’ossessione della figura femminile… che ci aiutano a capire come l’opera di questo autore si configuri come una specie di monstrum attorno a delle situazioni continuamente riprese e sviluppate dove i personaggi funzionano in contrapposizione e in relazione ad altri personaggi. Più che un itinerario, dunque, seguirò un fascio di itinerari paralleli, di temi che ritornano e che mi confermano come quella di Ibsen non sia un’opera così monolitica come si crede quanto un caleidoscopio ossessivo che ha per protagonisti dei personaggi prigionieri di se stessi all’interno di una tensione fantastica fra un mondo immaginario e fiabesco e una costruzione naturalistica, fra simbolismo e realismo.