2013 / Laboratorio agosto-settembre
Dal 23 agosto al 15 settembre 2013 si è svolto il laboratorio che ha visto coinvolto un gruppo formato da neo-diplomati all’Accademia Nazionale d’Arte Drammatica Silvio d’Amico (Rosy Bonfiglio, Barbara Chichiarelli, Flaminia Cuzzoli, Arianna Di Stefano, Desireé Domenici, Carmine Fabbricatore, Giulia Gallone, Michele Lisi, Matteo Mauriello, Gianluca Pantosti, Eugenio Papalia, Francesco Petruzzelli e Matteo Ramundo) e da altri giovani attori con già importanti esperienze professionali (Lucrezia Guidone, Fausto Cabra, Gabriele Falsetta, Fabrizio Falco, Lucia Lavia, Massimo Odierna e Sara Putignano). Luca Ronconi, affiancato dai registi Luca Bargagna e Benedetto Sicca, ha lavorato su testi diversi quali Cuore infranto di John Ford, su Strano interludio di Eugene ‘O Neill, su una lettera di John Fante e su alcune favole di Andersen.
Cuore infranto
di John Ford
Atto I, scena I
CROTOLO Massimo Odierna
ORGILO Fabrizio Falco
ITOCLE Gabriele Falsetta
PENTEA Lucrezia Guidone
BASSANO Fausto Cabra
EUFRANIA Sara Putignano
Atto I, scena II
AMICLA Matteo Ramundo
PROFILO Eugenio Papalia
CALANTA Lucrezia Guidone
ITOCLE Massimo Odierna
Atto II, scena III
PENTEA Lucia Lavia / Sara Putignano
ORGILO Fausto Cabra
Atto II, scena I
BASSANO Massimo Odierna
FILA Fabrizio Falco
Atto III, scena II
PENTEA Sara Putignano
ITOCLE Fausto Cabra
Atto III, scena II
PENTEA Rosy Bonfiglio
ITOCLE Eugenio Papalia
Atto IV, scena IV
ORGILO Gabriele Falsetta
ITOCLE Fausto Cabra
Atto V, scena III
BASSANO Fausto Cabra
ORGILO Gabriele Falsetta
Lettera a Stan e Howard
di John Fante (1954)
Michele Lisi, Carmine Fabbricatore, Matteo Ramundo, Matteo Mauriello, Gianluca Pantosti, Eugenio Papalia
Storia di una madre
di Hans Christian Andersen
Rosy Bonfiglio/Giulia Gallone
Il soldatino di stagno
di Hans Christian Andersen
Matteo Ramundo/Arianna Di Stefano
Il vecchio lampione
di Hans Christian Andersen
Barbara Chichiarelli
Strano interludio
di Eugene ‘O Neill
Atto IV, parte I
Carmine Fabbricatore, Flamina Cuzzoli/Giulia Gallone, Francesco Petruzzelli
Come ormai da più di un decennio, e in costante e proficua collaborazione con l’Accademia Silvio d’Amico, continua il Laboratorio di Luca Ronconi a Santacristina, luogo impervio e fascinoso, dove il Maestro ha stabilito, con la complicità di Roberta Carlotto, il suo quartier generale di libera docenza teatrale. Qui ogni agosto è invitato un gruppo di giovani attori diplomati da poco – se pur con qualche eccezione – alla stessa Accademia (è il caso, quest’anno, di Rosy Bonfiglio, Barbara Chichiarelli, Flaminia Cuzzoli, Arianna Di Stefano, Desireé Domenici, Carmine Fabbricatore, Giulia Gallone, Michele Lisi, Matteo Mauriello, Gianluca Pantosti, Eugenio Papalia, Francesco Petruzzelli e Matteo Ramundo, affiancati da altri che, nonostante la giovane età, hanno già un’esperienza professionale alle spalle: Lucrezia Guidone (Premio Ubu come miglior attrice under 30 nel 2012), Fausto Cabra, Gabriele Falsetta, Fabrizio Falco (Premio Marcello Mastroianni nell’ambito della 69a edizione della Mostra Internazionale d’Arte Cinematografica di Venezia), Lucia Lavia, Massimo Odierna e Sara Putignano) per indirizzarli in un percorso di formazione del tutto al di fuori dagli iter didattici tradizionali: in circa un mese di “residenza” – si mangia e si dorme all’interno di quest’eremo laico ubicato nella profondissima Umbria – vengono analizzati, quasi “vivisezionati”, testi di provenienza assolutamente differente, con i quali gli attori si cimentano sotto l’occhio vigile di Ronconi, che – scena dopo scena, frammento dopo frammento – attraverso le sue capacità maieutiche evidenzia gli errori e indica possibili strade, fermandosi talvolta a lungo su una singola, importante battuta. E se l’anno scorso l’attenzione di Ronconi si era concentrata su Pornografia di Witold Gombrowicz – divenuto in seguito uno spettacolo vero e proprio, che ha debuttato all’ultimo festival di Spoleto – quest’edizione – ancora più “laboratoriale” nel senso più puro del termine – vede il Maestro (assistito da Luca Bargagna e Benedetto Sicca, registi che già in precedenza hanno lavorato con lui) unico artefice analitico di diverse, affascinanti proposte testuali. La prima, o meglio la principale, è Il cuore infrantodi John Ford, autore elisabettiano dalla grande complessità, che Ronconi aveva già incontrato anni prima, nel 2003, allestendo Peccato che fosse puttana. Il testo, ambientato nell’antica Sparta, presenta forti difficoltà interpretative, dovute soprattutto alle dinamiche relazionali che legano i protagonisti, e che vengono messe in luce da Ronconi spesso lasciando sconcertati attori e osservatori: triangolazioni amorose, richieste di risarcimento sentimentale che a una lettura frettolosa non emergono, e che invece l’esame drammaturgico del regista mette in luce, risultano determinanti per la comprensione del dramma, in cui – se si vuole tentare di riassumerne il plot in poche parole – nessuno dei personaggi riesce a coronare il proprio sogno d’amore, scivolando fatalmente nel suo esatto ed eterno opposto, vale a dire la morte. È proprio con quest’analisi spietata, “filologica” e in un certo senso junghiana che gli attori, nell’incarnare a turno queste dolenti e stratificate figure, si devono confrontare, in un continuo guardare dentro e oltre se stessi travalicando e mettendo in discussione le proprie radicate verità.
Se più in generale si intendesse trovare a tutti i costi – e piuttosto arbitrariamente – un filo rosso tra i testi prescelti, la dialettica tra vita e morte e la complessità delle relazioni umane sembrano essere presenti anche nelle altre “tracce”, a cominciare da Strano interludiodi Eugene O’ Neill, pièce monstre in nove atti già affrontata da Ronconi nell’ormai lontano 1990, nella quale sono presi in considerazione trent’anni di vita di una donna, Nina, e degli uomini che a diverso titolo le stanno a fianco, vivendo e invecchiando con lei. Anche la commedia dell’autore americano, con le sue ambientazioni fosche e con i torbidi rapporti intersoggettivi che la contraddistinguono – oltre ai normali dialoghi è continuamente esplicitato anche il pensiero di chi parla, attraverso dei lunghissimi “a parte” – sembra particolarmente adatta all’escavo psicologico da parte degli attori, che si trovano costretti, sotto la guida del Maestro, a demolire le proprie sicurezze e convinzioni.
Storia di una morte, vista con affetto e benevolenza, è poi quella raccontata da John Fante in una delle sue Lettere: dopo aver compiuto una recusatio rispetto a un’opera che gli era stata proposta, lo scrittore prende a narrare ai propri interlocutori gli ultimi anni di suo padre, muratore “libertino” che ormai settantacinquenne si incapriccia di una signora di tre anni più vecchia di lui, gettando nello sconforto moglie e figli. Il tono divertito e bonario con cui questa figura di padre è descritta, con la sua scappatella innocente che lo fa tornare a sentirsi vivo, offre un’altra possibilità di guardare la vita degli altri senza esprimere giudizi e condanne.
Solo apparentemente più “leggeri” gli ultimi testi presi in considerazione da Ronconi per il lavoro con i ragazzi. Si tratta di quattro favole di Andersen, tre delle quali – eccettuando la dolorosa Storia di una madre che cerca di riprendersi il figlio sottrattole dalla morte – hanno un elemento in comune: a parlare sono sempre degli oggetti, che assumono però caratteristiche umane. Sia L’ago da rammendo che La teierao Il tenace soldatino di stagno rappresentano passioni, presunzioni, inquietudini, sofferenze, vicende di vita vissuta da parte di oggetti comuni, quasi insignificanti, ma che permettono all’autore di parlare di differenza e pregiudizi in termini ironici e non moralistici.
Questo il cocktail preparato da Luca Ronconi per il seminario di quest’anno. Rispetto ad annate precedenti è forse ancor più evidente la varietà degli approcci che ha voluto proporre ai suoi attori, dal dramma simbolico di John Ford al monumentale affresco intimistico di O’ Neill, attingendo però anche a forme meno consuete come l’epistola e la fiaba. In realtà ogni edizione ha connotati e contorni diversi, restando fermo soltanto il modo “entomologico” tipico del regista di scavare tra le pieghe delle pagine e delle parole, avendo sempre in testa un preciso disegno scenico. Nella cornice “monacale” del Centro Teatrale questo lavoro si scollega dal normale percorso di preparazione di uno spettacolo per assomigliare molto di più a un cantiere dove, attraverso l’apprendimento esperienziale e diretto, il teatro ritorna a essere quello che è sempre stato, cioè una straordinaria arte artigianale.
Quest’anno i materiali testuali sono estremamente vari, e vanno da Un cuore infranto di John Ford a Strano interludiodi Eugene O’ Neill, passando per quattro Fiabe di Andersen e una lettera di John Fante. Come mai hai scelto questi testi? C’è un filo o una relazione tra loro?
Nel caso di quest’anno non si può forse parlare propriamente di un filo, ma certamente di una consonanza. Sono partito da quella che mi sembra una necessità dei giovani attori, cioè indagare il lavoro che si può fare – a prescindere che ci si occupi di un dramma, di una lettera o di una fiaba –sugli scarti e sulle differenze tra ciò che chiamiamo “linguaggio sociale”, ossia quello che rivolgiamo quotidianamente verso gli altri, e quell’altra forma di linguaggio, molto più difficile da decifrare, che nella letteratura teatrale generalmente si definisce “tra sé”. Ma che vuol dire “tra sé”? Che cos’è quel “sé” preceduto dal “tra”? Molto spesso sono espressioni di comodo. Ecco perché ho utilizzato un dramma elisabettiano come Un cuore infranto, che – almeno nella traduzione che abbiamo usato – è di difficilissima decifrazione. A questo ho aggiunto un testo “canonico”, Strano interludio, tutto costruito sulla dicotomia tra conversazione e discorso interiore (perché parlare di “pensiero”, in questo caso, è un po’ impreciso). A queste scelte ho voluto accostare altre suggestioni, come una splendida lettera di John Fante e quattro fiabe. Il discorso, come dicevo,va nella direzione della differenziazione dei linguaggi.
Mi dà l’impressione che tutti i testi scelti abbiano un legame, ogni volta diverso, con il tema della morte. Mi sbaglio?
No, credo che non sia sbagliato, alla fin fine. Ma ti confesso che non so fino a che punto io li abbia scelti con quest’intenzione. Devo dire che Un cuore infranto lo conosco bene, l’ho anche visto una volta a teatro, anche se in Italia non è mai stato rappresentato. È una pièce abbastanza strana, che forse si presta di più a un’esercitazione “interna” per attori giovani che abbiano voglia di mettersi in discussione piuttosto che a una rappresentazione destinata al grande pubblico, anche se non ti nego che mi piacerebbe farne uno spettacolo. Anche Strano interludio, che ho già portato in scena in passato, è un’opera complessa, in cui ci si può accontentare dei primi risultati ottenuti, ma se la si indaga più a fondo vi si ritrova una notevole richiesta di fantasia. E anche di ironia, specialmente quando si parla d’amore.
Mi ha colpito che, a proposito di Un cuore infranto, tu parlassi di “universo simbolico”.
Anche se non posso affermare che sia una costante del teatro di Ford – di cui ho già allestito Peccato che fosse puttana – in questo dramma una lettura “simbolica” mi sembrava appropriata. Basta pensare a quante volte ricorre all’interno di questo testo il termine “cuore”, anzi meglio ancora a quanto spesso è declinata l’opposizione cuore/corpo. E soprattutto a quante volte i personaggi dicono che il loro cuore è stato strappato. Per rendere questo concetto possediamo una serie di schemi narrativi, si potrebbe addirittura ipotizzare, in termini cinematografici, un horror in cui protagoniste sono tante figure che vivono senza cuore. Credo che una metafora non sia suscettibile di rappresentazione, al massimo si può rappresentare l’oggetto che essa tratta. Discorso diverso per quanto riguarda il simbolo. Mi piaceva d’idea di immaginare un gruppo di personaggi inseriti in una rete simbolica: se nella realtà è impensabile che la gente viva senza cuore, simbolicamente invece è possibile figurarsi quest’immagine, come quella di un cuore girovago che, strappato da una parte, torna a vivere e a spezzarsi dentro un altro corpo. Non so se tutto questo si riesce a rappresentare, e nemmeno se sia lecito farlo, ma mi incuriosiva tentare questa strada.
Tra i materiali che hai selezionato trova posto anche la citata lettera di John Fante, che narra la morte del padre in modo affettuoso e ironico. Perché hai inserito quest’epistola?
I ragazzi e le ragazze di oggi – e giocoforza anche i giovani attori – nel loro quotidiano parlano come le peggiori sceneggiature televisive: utilizzano un linguaggio chiuso, generalmente formato di poche parole, sempre le stesse, che giustificano una storia. C’è una conformità in cui si imprigionano, il loro parlare è esplicativo di loro presunti sentimenti. Spesso le parole servono per ammorbare gli altri, per rovesciare negli altri immagini di sé che sono generalmente illusorie. Mi sembrava al contrario che la scrittura di Fante fosse molto concreta. E lavorare sul concreto, anche se, ovviamente, partendo da un forte immaginario, era proprio uno degli obiettivi che mi ero posto quest’anno. Nell’analisi di Un cuore infranto stiamo alla lettera, non sono bellurie, sono ipotesi concrete in cui verificare la possibilità di dire qualcosa. Tentativi per comprendere come si possa realmente percepire una situazione così estrema. E allo stesso modo cerchiamo di capire come si possa percepire un contesto familiare così tenero come la rievocazione della morte di un padre scavezzacollo. Con quella lettera indaghiamo la restituzione, attraverso la memoria, di un passato familiare. In fondo è uno studio sulla temporalità, così come, naturalmente, Strano interludio, che è un testo sul tempo. La cosa che più gli si avvicina, dal punto di vista teorico, è Il tempo vissuto di Eugène Minkowski. Lo “strano interludio” si riferisce proprio a quel concetto. Dunque temporalità e concretezza: e per trovare concretezza anche in Un cuore infranto ci vuole una certa faccia tosta…
Per completare il quadro mancano ancora le quattro Fiabe di Andersen, L’intrepido soldatino di stagno, La teiera, L’ago da rammendo e Storia di una madre.
Le ho inserite per affetto, e non è la prima volta che utilizzo fiabe come materiali di lavoro. In realtà c’è la consuetudine di scegliere sempre le stesse fiabe, non tutte. Andersen invece ne ha scritte di tutti i tipi, e io all’interno di quell’enorme corpus ne ho selezionate quattro, che – in particolare tre di loro – sono storie di degradazione, di umiliazione, di mortificazione, dove protagonisti sono degli oggetti. Mi intrigava la loro perseveranza nel continuare a essere contenti senza accorgersi che il mondo li sta degradando.
Più in generale, come si è organizzato il laboratorio di quest’anno?
Questa volta il gruppo era composito, a fianco di attori che lavorano già da sei, sette anni stavano giovani freschi di diploma alla Silvio d’Amico. Quindi è normale che il livello sia stato un po’ altilenante. Abbiamo anche ridotto, per necessità, il periodo di lavoro, rispetto al passato. Ma già l’anno prossimo vorrei tornare a un arco temporale più dilatato.
Alla fine metterai in scena Un cuore infranto?
Non ti so rispondere, e non per reticenza. Uno dei motivi per cui ho sempre rifiutato le varie proposte di girare un film è stato il terrore del montaggio. Ma paradossalmente il teatro non so farlo che attraverso il montaggio. Anche le poche cose realizzate per la televisione le ho girate tutte con una camera sola e senza interruzioni. Gli spettacoli invece mi nascono proprio attraverso il montaggio di due battute o di quattro movimenti. Ed è sempre stato così. Certi allestimenti poi si ricompongono, ma parecchi, e forse anche alcuni dei migliori, anche alla fine continuano a essere frammentari. Per cui non potrei dire ora se alla fine metterò in scena il testo di Ford: ho la necessità di lavorarci sopra di più. Come nel caso dei Sei personaggi, che è diventato poi uno spettacolo, ho bisogno di verificare se, nell’arco del tempo, nasce qualche barlume per la rappresentazione. Ti confesso però che mi piacerebbe molto, è un testo estremamente ricco e pieno di potenzialità.
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