20 Ottobre 2017

2011 / La Modestia

Per il terzo anno consecutivo, il Centro Teatrale Santacristina è presente al Festival di Spoleto, dove debutta lo spettacolo La modestia. Luca Ronconi sceglie di mettere in scena una delle più raffinate ed ambiziose opere che compongono l’Eptalogia di Rafael Spregelburd avvalendosi di quattro interpreti di eccezione del teatro italiano: Francesca Ciocchetti, Maria Paiato, Paolo Pierobon, Fausto Russo Alesi.
Lo spettacolo è presentato anche nell’ambito del Mittelfest di Civitale del Friuli e, nella stagione 2011-2012, è in cartellone al Piccolo Teatro di Milano.

Lo spettacolo è prodotto dal Centro Teatrale Santacristina in coproduzione con il Festival dei Due Mondi di Spoleto, MittelFest – Civitale del Friuli, Piccolo Teatro di Milano.


Locandina/Programma
Spoleto, Teatro Caio Melisso
24/26 giugno 2011

La modestia
di Rafael Spregelburd

regia Luca Ronconi

con (in ordine alfabetico) Francesca Ciocchetti, Maria Paiato, Paolo Pierobon, Fausto Russo Alesi
traduzione Manuela Cherubini
scene Marco Rossi
costumi Gianluca Sbicca
luci A.J. Weissbard
Assistente alla regia Giorgio Sangati
Direttore di scena Angelo Ferro
Produzione a cura di Roberta Carlotto
Delegati di produzione Claudia Di Giacomo, Maria Zinno
Progetto e realizzazione Santacristina Centro Teatrale

una coproduzione Piccolo Teatro di Milano-Teatro d’Europa, Fondazione Festival dei Due Mondi di Spoleto e Associazione Mittelfest.

Materiali
Due interviste a Luca Ronconi di Oliviero Ponte di Pino

Hai lavorato moltissimo sui classici, ma nella tua carriera non mancano le incursioni nella drammaturgia contemporanea. Anche se poi a volte pare quasi che la drammaturgia contemporanea non ti soddisfi del tutto, visto che spesso senti il bisogno di utilizzare testi non teatrali.
Non è affatto vero che non mi interessa la drammaturgia contemporanea, e non solo in questi ultimissimi anni. Nel 1978, quando ho fatto Calderón, Pasolini era contemporaneissimo…

…Wilcock, di cui nel 1971 hai portato in scena XX, pure…
Anche Infinities era drammaturgia contemporanea. In realtà il termine “drammaturgia” mi pare troppo generico. Ci sono scrittori per il teatro contemporaneo, e ce ne sono sempre stati, che però non chiamerei “autori”: sono piuttosto fornitori di copioni, secondo le regole teatrali vigenti in quel momento. Altri scrittori per il teatro sono invece propriamente “autori”: possiedono un linguaggio particolare, hanno un modo singolare di organizzare i materiali teatrali: sono gli autori che mi interessano di più.

Dunque è in primo luogo un problema di linguaggio.
Certo. Prendi in esame gli “ultimissimi”. Un autore come Jean-Luc Lagarce (di cui ho allestito Giusto la fine del mondo nel 2009) ha il suo linguaggio. Anche Botho Strauss, che ho messo in scena due volte (Besucher, 1989, e Itaca, 2007) ha una sua fisionomia, come Edward Bond, un altro autore che ho messo in scena due volte (Atti di guerra, 2006, e La compagnia degli uomini,2011). D’altra parte, perché devo dire che non è un autore contemporaneo l’autore di Infinities, John Barrow? O Giorgio Ruffolo, di cui ho portato in scena Lo specchio del diavolo? E’ vero, hanno scritto due saggi, che però hanno avuto una forte resa teatrale…

La forza del linguaggio si coglie già alla lettura, sulla pagina, oppure è necessario aspettare di vederla incarnarsi in scena, nella parola degli attori?
Si vede subito, dalla pagina. Quando ho letto l’epistolario di Vittorio Foa, Miriam Mafai e Alfredo Reichlin, Il silenzio dei comunisti, mi sono detto: “Questo lo posso benissimo fare”, non tanto perché si tratta di testi scritti in prima persona, ma perché sono tre forme di linguaggio molto precise e diverse una dall’altra.

Quando metti in scena un classico sei sempre molto consapevole di tutte le varie messinscene di quel testo. Nel caso di un testo contemporaneo, questo non è possibile.
Infatti l’approccio è abbastanza diverso. Sui classici gioca molto la memoria che ne hai, le frequentazioni… Il lavoro su un testo contemporaneo mi piace molto e mi è sempre piaciuto, perché è sempre un lavoro di scoperta. Un testo contemporaneo lo puoi fare in vari modi. Per esempio, c’è chi va a vedere una commedia inglese al Festival di Edimburgo, e poi la riproduce più o meno uguale da in Italia, con gli opportuni accorgimenti. Un’operazione del genere non sarei capace di farla, per un motivo molto semplice: per me, a parte il linguaggio del testo, anche la lingua che parlano gli attori non è facilmente trasferibile in un’altra lingua. Ecco, mi interessa lavorare su testi contemporanei dove la scrittura presenta dei problemi. La stessa cosa sarebbe accaduta se fossi nato quarant’anni prima e mi fossi trovato a mettere in scena una commedia di Pirandello.

Quando dici che il linguaggio pone dei problemi, che cosa intendi?
Si tratta ogni volta di capire, non solo dal punto di vista drammaturgico, perché l’autore usa quella cadenza, quel ritmo, quel giro di frase… Insomma, non si tratta di leggere il testo come uno spartito che va in qualche modo ripercorso, e poi alla fine lo spettacolo viene fuori da solo. Si tratta invece di capire le ragioni che stanno dietro alle scelte dell’autore.

Quindi si tratta di andare a vedere quello che c’è aldilà e sotto il testo. Ma questo lo fai anche con Pirandello e con Shakespeare…
Il presupposto è cercare di entrare nella mente di chi ha fatto una cosa, e questo vale sia per i classici sia per i contemporanei…

Arrivando a Rafael Spregelburd, che cosa ti ha interessato quando hai incontrato i suoi testi?
Mi sono subito sentito un suo parente. Una volta mi hanno chiesto: “Qual è il tuo spettacolo ideale?”. Io ho risposto, e risponderei ancora, che è uno spettacolo infinito in un teatro in fuga. Lo sguardo un tantino scettico che mi viene quando si parla di “profondità”, e la curiosità che mi si sveglia immediatamente quando si parla di “estensione”, li ritrovo perfettamente in Spregelburd. E poi, come gli ho detto quando l’ho incontrato, il motivo per cui mi piace il suo teatro è che mi sembra che scriva commedie che si fanno da sole.

In che senso le commedie di Spregelburd “si fanno da sole”?
Sono organismi che proliferano quasi indipendentemente dall’autore. Anche se poi in realtà l’autore c’è, ed è presente in ogni cerniera. Tuttavia i suoi testi ti danno questa impressione: tanto è vero che in parecchie commedie, compresa La modestia, hai l’impressione che l’autore non riesca a trovarne la fine. E non lo considero un difetto o una mancanza.

Infatti Spregelburd è autore di testi molto lunghi, a puntate, che proliferano…
E questo mi piace molto.

Ma secondo te qual è il meccanismo generativo che porta a questa proliferazione infinita?
Le mie sono solo illazioni, ma credo che nel caso di Spregelburd sia il frutto di un senso storico molto preciso, da una forte consapevolezza della contemporaneità – e con questo non voglio certo dire dell’attualità. E’ un senso delle simultaneità contemporanee. In varie occasioni mi sono trovato a fare degli spettacoli in cui c’era una sincronia strutturale, con diverse azioni che accadono simultaneamente. Spregelburd parla addirittura di “struttura frattale”.

Quindi ti ha interessato il lavoro sul tempo, sulla durata e sulla simultaneità…
Nella sua drammaturgia si sentono anche le ascendenze della sua formazione matematica. E possiamo trovarci anche tantissimi antecedenti letterari, anche perché molto spesso la sua drammaturgia si rifà a topoi drammaturgici e narrativi molto riconoscibili.

Ed è argentino come Borges… Tuttavia lo scheletro logico-matematico che sostiene la sua drammaturgia, e questo intreccio di citazioni colte, poi si contaminano con l’aspetto pop, perché c’è una grande capacità di usare i linguaggi contemporanei…
E’ anche molto ludico…

…e molto ironico: nella Modestia ci sono varie stratificazioni ironiche. Ma questo, forse, per un regista come te pone un ulteriore problema. Hai detto che di fronte a un testo, vai a scavare quello che c’è dietro, o sotto. Di fronte a una scrittura di per sé così stratificata, che cosa puoi trovare?
Devi giocare anche temporalmente, prima una cosa, poi l’altra, poi un’altra ancora, per ricostruire la stratificazione che c’è nel testo.

Come ti poni di fronte ai meccanismi ironici della scrittura di Spregelburd?
Nella Modestia ci sono anche elementi patetici…

Tutta la vicenda russa lavora sul patetico…
E’ straziante!

Come i grandi romanzi russi dell’Ottocento… Ma con tutte queste suggestioni presenti nel testo, come riesci a richiudere il cerchio, a far quadrare l’aspetto logico di cui si parlava prima?
E chi lo sa? Vedremo…

Anche perché, di fronte a un testo di questo genere, il lavoro con gli attori non può certo andare verso l’approfondimento psicologico, lo scavo nell’interiorità dei personaggi…
Non avrebbe senso. L’idea stessa di identità individuale viene messa radicalmente in discussione. C’è un aspetto che mi piace molto della Modestia: questi personaggi – anzi, questi attori, perché c’è la condizione del personaggio e quella dell’attore… Ecco, quello che mi piace è che gli attori non dovrebbero mai sapere con precisione se stanno in una storia o nell’altra. Quella sensazione di essere sempre profughi, di vivere continuamente le vite degli altri, mi pare che sia una caratteristica dei personaggi di Spregelburd. Molte delle sue commedie – penso a Il panico, a La paranoia – sono “bilocate”: si svolgono in più posti, in due luoghi se non in quattro. Dunque emerge la sensazione di essere un po’ i fantasmi di altri: nella Modestia questa sensazione è fortissima, si usano gli attrezzi di altri, i personaggi si siedono dove altri si sono seduti, si sdraiano su letti che appartengono ad altri, perché sono nell’altra storia… E’ una cosa bella e interessante: la riflessione sul rapporto tra l’attore e il personaggio si moltiplica all’ennesima potenza.

Su Spregelburd avevi un piano più ambizioso rispetto alla messinscena di un unico testo.
Sarei partito quest’anno portando in scena io tre testi suoi, e poi in futuro mi sarebbe piaciuto allargare l’esperienza anche ad altri colleghi, per presentare tutti i sette testi della Eptalogia.

Forse ci si riuscirà, con il tempo.
Farò di tutto per riuscirci, perché mi pare che si tratti di un autore che merita di essere conosciuto. Molto teatro contemporaneo prende i suoi temi dal giornalismo, dall’attualità, dalla cronaca: a volte questo dà origine a testi belli, altre volte a testi meno belli, ma sempre un po’ precotti. Spregelburd è invece un autore che si è affidato a una percezione della contemporaneità che corrisponde al nostro tempo ma non è cronachistica, lavora sull’immaginario. Ho sempre pensato che in teatro un tema contemporaneo, se lo cali nelle forme e nelle strutture consuete (il personaggio, il dialogo, la trama, l’intervallo, eccetera), alla fine tanto contemporaneo non risulta. Gira e rigira, quei testi sembrano tutte commedie dell’Ottocento: quelle forme non riescono più a contenerci, non ci stiamo più dentro…

Un altro aspetto che ti ha incuriosito è che questi testi non sono scritti da un letterato, ma da un uomo di teatro.
Lo senti subito! Una battuta di Schiller o di Ibsen può essere recitata bene o recitata male, ma resta, ha una sua autonomia. Invece una battuta di Spregelburd pretende di essere recitata.

Perché non è letteratura?
E’ anche letteratura, e questo è il suo bello. Però va in due direzioni diverse: da una parte c’è un gioco letterario, e infatti il testo, se lo leggi, funziona benissimo; d’altra parte, però, se il gesto e la voce non se ne fanno carico, improvvisamente quel gioco sparisce e rischia di restare solo una lettera piatta. Tenendo presente che il gesto e la voce dell’attore apparentemente possono dare molto, ma possono anche togliere molto.

Un altro aspetto che conferma la forza di questo testo è la precisione dei rapporti tra gli attori, tra i personaggi, tra gli spazi, tra i tempi… E’ una consapevolezza che un autore può raggiungere solo se è abituato a fare teatro, a muovere gli attori in scena.
Del resto le didascalie che costellano il testo sono fatte sulla rappresentazione. Le ripropongo tutte, perché fanno parte del testo.

A volte nel caso dei classici sei andato “contro” il testo. Nel caso di un autore contemporaneo si può fare? Ha senso farlo?
E’ un po’ difficile. I classici ormai sono diventati una terra di nessuno. Però con un testo contemporaneo, invece, è possibile in qualche modo sbagliarsi, cadere in qualche equivoco, non capire.

Stai facendo lavorare duramente gli attori. Anche perché non devono sbagliare…
Non è facile. Devono capire bene perché ci sono quelle parole, perché quella parola ne chiama un’altra… La maggior parte degli attori ha sempre la tendenza alla psicologia, alla ricerca della verità. Con questo testo diventa molto difficile.

A quel punto, però, se gli attori non si possono agganciare a questo, che cosa resta?
Devono trovare qualcos’altro a cui agganciarsi. Per esempio, c’è una scena in cui un personaggio – quello che interpreta Fausto Russo Alesi – gioca a carte un gioco che non conosce e contemporaneamente tratta un affare. Potrebbe diventare una specie di cliché comico, ma in realtà viene molto meglio, ed è più divertente, se senti che l’attore si mette in una specie di bilocazione reale: può ascoltare e giocare, controllando contemporaneamente due codici completamente diversi. E’ una facoltà che esiste, c’è qualcosa di reale, di fisiologico. Sono procedimenti mentali e cognitivi che possiamo seguire, una situazione in cui le parole ti vengono da sole e non devi andarle a cercare…

Questo meccanismo è già presente nel testo?
Sì, e l’attore deve eseguirlo. Questo non vuol dire che non ci deve mettere del suo: però può metterci qualcosa di suo solo sopra questa cosa, solo dopo aver restituito quello che c’è nel testo: per l’appunto questo essere perennemente bilocati.

La bilocazione è una qualità che attribuivi in senso generale alla drammaturgia di Spregelburd, e che si riflette anche nel lavoro dell’attore.
La nostra tendenza “italiana” consiste nel recitare sempre per convincere l’altro. L’attore cerca di essere convincente, vuole avere ragione. Invece in questa commedia l’obiettivo è frastornare, deviare…

Tutto questo sullo spettatore che effetto può o deve avere?
Nel migliore dei casi, dovrebbe accadere quello che capita con certi film di Hitchcock, come Marnie o La finestra sul cortile: capisci che tutto quanto ha una regola, però fatichi un po’ a trovarne la chiave.

Il pericolo è che la chiave venga fuori troppo facilmente?
Oppure che non venga fuori affatto…

L’altro aspetto interessante della drammaturgia di Spregelburd, come abbiamo visto, è che offre diversi livelli – e dunque chiavi – di lettura. C’è lo spettatore a livello – diciamo così – di telenovela, che viene catturato dalla trama, dalle vicissitudini dei vari personaggi. C’è lo spettatore in grado di decodificare i riferimenti più o meno colti, teatrali, letterari e cinematografici, e quindi si diverte ironicamente a smontare il meccanismo… Ma sotto c’è ancora qualcos’altro?
Beh, qualche ambizione filosofica c’è. Vuole essere un teatro scientifico, in qualche modo.

L’oggetto di questa scienza?
La perdita d’identità è sicuramente un tema.

(Milano, 16 maggio 2011, qualche settimana prima del debutto a Spoleto il 24 giugno)

Un imbroglione con un senso etico fortissimo

Nel corso delle prove, rispetto alla tua lettura del testo di Spregelburd e al progetto iniziale, quanto spazio è rimasto a te e agli attori per cambiare la tua visione della commedia e dello spettacolo?
La prima cosa che ho detto agli attori, il primo giorno di prova – e a quel punto si sono quasi spaventati – è: “Guardate che io non sono per niente preparato. Non ho un progetto già fatto, ma credo di conoscere molto bene la commedia. Però non mi sono posto il problema di quello che ne deve venir fuori.” Non è che mi capiti sempre di trovarmi in una situazione del genere, ma in questo caso ci ho voluto provare.

Mentre di solito, quanto inizi a provare, hai già preparato la messinscena nei dettagli? Dalla caratterizzazione dei personaggi ai movimenti degli attori…
No, questo non mi capita mai. In questo caso avevo in mente diverse ipotesi, diciamo tre o quattro possibilità di lettura del testo o di una determinata scena. Secondo me questo è un buon punto di partenza. In genere mi dico: “Beh, questa scena potrebbe essere così, ma potrebbe anche essere fatta in quest’altro modo”. È una logica combinatoria: le commedie di Spregelburd sono costruite proprio così, ed è per questo che mi piacciono. Dunque penso che il mio fosse l’atteggiamento giusto per affrontare un testo come questo… Poi, come sempre, durante le prove sono arrivati momenti di difficoltà. E la difficoltà può essere risolta pensando: “Beh, forse questa cosa qui è quest’altra”.

Quando parli di momenti di difficoltà, puoi fare un esempio?
Penso alla scena che viene dopo che hanno annaffiato María Fernanda per spegnere l’incendio. Quando si passa all’altra situazione, quella “russa”, e l’attrice che interpretava María Fernanda diventa Leandra, la didascalia spiega che è “bagnata”: la situazione viene giustificata drammaturgicamente spiegando che Leandra era uscita per cercare Terzov e facendole dire che “pioveva tanto che non…”. Stranamente questo scambio di battute non funzionava, perché si tratta una giustificazione meschina. Allora ho pensato: “Se qui a raccontare la storia, a motivare la situazione di Leandra, non fossero i personaggi, ma fossero gli attori?” Insomma, immaginiamo che in quel momento gli attori si inventino una storia, lì per lì, in modo da giustificare quello che è già successo. Non so se sia giusto o no, se l’autore ci avesse pensato mentre scriveva la pièce. Però in scena funzionava molto bene. Siccome la commedia è fatta tutta a puzzle, se una cosa s’incastra vuol dire che va bene. Così nello spettacolo ci sono alcune scene in cui gli attori, invece che essere i personaggi dell’una o dell’altra storia, si danno consigli a bassa voce.

È una soluzione che per certi versi contraddice il tuo atteggiamento nei confronti del testo.
Spregelburd lavora per citazioni, rimandi, frammenti, e per accumulo. Dunque è come se mettesse moltissime virgolette all’interno della sua scrittura drammaturgica. In genere, tu hai lavorato con gli attori proprio togliendo queste virgolette, chiedendo loro di prendere il testo alla lettera, battuta dopo battuta: “Siete in questa situazione, e dunque dover comportarvi di conseguenza”.
Ma contemporaneamente, quando gli attori sono in una delle due situazioni, diciamo nella vicenda russa, sono anche in quell’altra, quella sudamericana…

Però introducendo questo gioco del teatro nel teatro, è come se aggiungessi altre virgolette.
C’è un’altra situazione di questo genere nel finale.

Ti riferisci al crollo?
No, ancora dopo. Tutta la confusione finale… Accade un po’ come in altre commedie di Spregelburd: sembra che l’autore non riesca a venire a capo di tutti i fili che ha tirato. E allora, per giustificare quello che è accaduto, arriva quel finale. Ma perché bisogna giustificarlo? Il finale è quello, e basta… Ma può essere utile anche tener presente che questo testo Spregelburd l’ha anche interpretato: faceva la parte di Terzov/San Javier, quindi la parte dell’autore. Io sono sicuro – è una mia illazione, ma puoi anche essere sicuro delle tue illazioni, anche sapendo che restano illazioni… – sono sicuro che Spregelburd, recitando quel testo e occupandosi anche della regia, fosse anche un po’ curioso di vedere quello che combinavano gli altri personaggi. La situazione del suo personaggio è quella di chi capita in una certa situazione, non sa bene che cosa stia succedendo ed è curioso di capire come potrà evolvere. È quasi una posizione autoriale: sembra un po’ un autore di fronte a un gruppo di personaggi liberi. Nella Modestia ci sono otto personaggi, quattro per ciascuna delle due situazioni, ma potrebbero anche essere dodici, perché c’è anche l’essere attore dei personaggi. Infatti ci sono nello spettacolo diversi momenti in cui questa chiave funziona benissimo. Tanto è vero che a un certo punto ho pensato che non fosse necessario fare dei passaggi così scanditi, bruschi, tra le due situazioni, quella “russa” e quella “sudamericana”. Nei primi quadri è utile e giusto far capire che c’è un cambio di scena: si vedono anche mobili e oggetti che si spostano a vista, per indicare il cambio di situazione, perché in una pièce a chiave è necessario avvertire gli spettatori che esiste una chiave. Però, una volta che la chiave è stata enunciata, non è più necessario seguirla così rigidamente. Così nello spettacolo ci sono alcuni passaggi in cui i personaggi, all’inizio della scena successiva, parlano ancora come quelli della scena precedente. Addirittura in un’occasione, quando si passa alla scena “russa”, uno dei personaggi parla ancora in una specie di spagnolo…

E gli attori, che cosa hanno dato a te e ai loro personaggi nel corso delle prove?
Il ritmo! Io posso dare loro soltanto delle indicazioni molto precise sulla battuta…

Indicazioni sulle motivazioni e sulle intonazioni?
Piuttosto indicazioni di movimento e di rapporto. Soprattutto di rapporto. Però il ritmo dello spettacolo è assolutamente merito loro. I quattro protagonisti della Modestia sono bravissimi per due motivi: in primo luogo fanno bene i loro personaggi, e poi hanno un affiatamento che un regista non può costruire. Non glielo può imporre. Ho insistito molto sul fatto che il testo è basato sui rapporti tra i personaggi: ma un personaggio non sa mai chi è l’altro, non lo deve mai sapere, perché la situazione deve sempre rimanere sospesa. Però più di questo non potevo dare.

Dunque dagli attori sono arrivati il ritmo e il rapporto tra i personaggi…
Il modo in cui sono riusciti ad affiatarsi. Abbiamo provato relativamente poco, ma al debutto di Spoleto sembrava che avessero provato per tre mesi…

Invece, per quanto riguarda le intenzioni, ci sono state scene in cui tu avevi un problema e gli attori ti hanno tirato fuori dai guai?
Direi di no…

Insomma, mi pare di capire che hai lavorato quasi più a togliere agli attori le idee che potevano essersi fatte sul loro personaggio, i loro pregiudizi…
Anche perché una qualità dei personaggi di Spregelburd che apprezzo è che nemmeno loro stessi si conoscono così bene. Uno dei motivi del fascino della Modestia, e in genere di tutte le commedie di Spregelburd, è che i personaggi hanno degli obiettivi sull’azione, sanno benissimo quello che devono fare in quel preciso momento, ma non hanno certezze sulla propria identità. È qui che la commedia diventa davvero interessante…

Anche nel lavoro sugli attori…
Perché nel lavoro sugli attori si riproduce il senso della commedia… Quello che deve fare ogni attore è soprattutto lasciarsi portare da questo meccanismo. Se l’attore gestisce troppo il personaggio, se si pone in maniera eccessiva il problema delle sue motivazioni, e se deve metterle in relazione alle motivazioni dell’altro personaggio, il meccanismo s’inceppa. Seguendo questa strada, ne uscirebbe una specie di commedia psicologica, che però non terrebbe più, perché in scena perderebbe tutto il suo ritmo. Per questo ho molto spinto sul versante della mobilità, verso una mobilità totale.

Nei testi di Spregelburd c’è moltissima ironia, molte scene comiche. Anche nella tua messinscena della Modestia ci sono scene molto divertenti, ma alla fine dallo spettacolo emerge una visione assai più tragica dell’esistenza, anche rispetto ad altri allestimenti dei testi di Spregelburd…
Però lo spettacolo è molto divertente!

Ma anche profondamente tragico…
Alla fine della Modestia, quello che ti resta, non tanto dalle singole battute ma dall’intera commedia, è che nessuno dei personaggi è più al proprio posto, nessuno si sente più al proprio posto da nessuna parte. E questo non è tragico?

Può essere sia comico sia tragico…
Può anche far ridere. Però a pensarci bene, e facendo riferimento anche alle nostre esperienze, non è più così divertente… Succede anche con Il panico, un altro tassello della Eptalogia sui sette vizi capitali di Spregelburd, che porterò in scena l’anno prossimo. La commedia ruota in torno a un morto circondato dai vivi, e come La modestia fa molto ridere. Però se fai attenzione ti accorgi che tutti i personaggi “vivi” sono degli spostati: il Terapeuta fa il dog sitter, la sensitiva Susana si “occupa di una bambina”… Tutti i personaggi fanno centomila cose insieme e devono di fatto essere dappertutto. Non riescono mai ad essere concentrati su quello che stanno facendo in quel preciso momento, perché stanno già correndo da un’altra parte… L’unico personaggio che si sente al proprio posto è proprio Emilio, il morto intorno a cui ruota il testo: lui ha la serenità di chi è crepato, mentre gli altri sono in preda al panico causato da questa continua bilocazione. È una trovata che potresti trovare in una pièce di Coward o di Priestley, quasi un gioco da commedia brillante. Invece in questo caso, siccome il riferimento è il cinema horror, il testo si colora di un’altra tinta.

Quest’anno Rafael Spregelburd ha vinto per il secondo anno consecutivo il Premio Ubu per la migliore novità straniera, per Lucido. Ha mandato un messaggio di ringraziamento, nel quale ha sottolineato l’attenzione che ha oggi l’Italia per la sua drammaturgia, che è nata in una Argentina profondamente segnata dalla crisi economica, proprio come l’Italia di questi ultimi anni. Questa sensazione di incertezza, questa necessità di arrabattarsi facendo più parti in commedia, questo sdoppiamento, è certamente un riflesso di questa crisi…
Sotto sotto, però, c’è un altro aspetto, anche se non viene mai esplicitato. Nel teatro di Spregelburd c’è incertezza su tutto, ma non c’è alcuna incertezza sui valori fondamentali dell’esistenza: la lealtà, l’etica… I personaggi sono altrettanti imbroglioni, ma con un senso etico fortissimo.

Ma come è possibile essere degli imbroglioni con un senso etico fortissimo?
Sono imbroglioni che però sanno che cosa è il bene e che cosa è il male. In loro non c’è cinismo, e questo è molto piacevole. Anche artisticamente, nell’approccio di Spregelburd al teatro, accade la stessa cosa. La sapienza con cui sono costruite le sue commedie è certamente frutto di una straordinaria furbizia drammaturgica, però al loro interno c’è anche un elemento di saggezza. In questo senso, si può dire che Spregelburd, a differenza di tantissimo teatro contemporaneo, non la vuol dare a bere.

Che cosa vuol dire che “non la vuol dare a bere”?
Che non vuol farla franca, che è sincero nel momento in cui costruisce le sue finzioni.

(Milano, 21 dicembre 2011, dopo Spoleto e la ripresa di Cividale e prima del debutto di Milano)