20 Ottobre 2017

2006 / La mente da sola. Mosaico di lettere

Corso di formazione per attori.
Tra le oltre 400 domande pervenute, vengono selezionati 25 allievi attori più 8 attori professionisti e 2 registi in qualità di uditori.
Dal 17 luglio al 30 agosto il corso si svolge presso la sede del Centro Teatrale Santacristina. Il Teatro Morlacchi di Perugia ospita la giornata conclusiva aperta al pubblico.

Il corso è promosso dall’Università per gli Stranieri di Perugia con il sostegno della Regione Umbria e della Provincia di Perugia.


Locandina/Programma
PROGRAMMA
Prova aperta: Gubbio, Teatro Comunale – 30 agosto 2006
Saggio finale: Perugia, Teatro Morlacchi – 23 settembre 2006

La mente da sola. Mosaico di lettere.
a cura di Luca Ronconi

lettere di
Emily Dickinson, Franz Kafka, Wolfgang Amadeus Mozart, John Keats, Katherine Mansfield, Antonin Artaud, Vita Sackville-West, Georg Trackl, Dylan Thomas, Charles Bukowski, Marina Cvetaeva, Susette Gontard, Boris Pasternak, John Fante

selezione a cura di Emanuele Trevi

gli attori in scena:
Lorenzo Bartoli, Tommaso Cardarelli, Elena Cepollaro, Fortunato Cerlino, Francesca Ciocchetti, Claudia Coli, Anna Della Rosa, Giovanna Di Rauso, Ilaria Falini, Elisabetta Ferrari, Riccardo Festa, Ilaria Genatiempo,Vincenzo Giordano, Mariangela Granelli, Tatiana Lepore, Luca Levi, Alessandro Loi, Michele Maccagno, Leonardo Maddalena, Vinicio Marchioni, Silvia Masotti, Cristiano Nocera, Alberto Onofrietti, Pilar Pérez Aspa, Irene Petris, Lorenzo Piccolo, Matteo Romoli, Benedetto Sicca, Giovanni Vaccaro, Marco Vergani, Greta Zamparini, Giulia Zeetti, Camilla Zorzi

E con
Fabrizio Arcuri, Roberto Latini

I collaboratori
Carmelo Rifici, Maria Consagra, Antonio Bertusi, Alessio Maria Romano, Claudia Di Giacomo – PAV, Flaminia Caroli

 

LOCANDINA
La mente da sola. Mosaico di lettere

PRIMA PARTE

Emily Dickinson a Samuel Bowles – 1858 – Francesca Ciocchetti
Emily Dickinson a Martha Dickinson – 1882 – Pilar Pérez Aspa
Emily Dickinson a Louise Norcross – 1872 – Irene Petris
Franz Kafka Lettera a Milena – 1920/1922 – Vincenzo Giordano
Emily Dickinson a Thomas W. Higginson -1885 – Pilar Pérez Aspa
Wolfgang Amadeus Mozart Lettere alla cugina – 1778 – Tommaso Cardarelli
Wolfgang Amadeus Mozart Lettere alla cugina – 1777 – Marco Vergani
John Keats a Fanny Brawn – 1820 – Matteo Romoli
Katherine Mansfield a John Middleton Murry – 1915 – Mariangela Granelli
Emily Dickinson a Thomas W. Higginson – 1862 – Claudia Coli
Emily Dickinson a Thomas W. Higginson- 1862 – Greta Zamparini
Emily Dickinson a Thomas W. Higginson – 1862 – Elisabetta Ferrari
Emily Dickinson a Thomas W. Higginson – 1862 – Anna della Rosa

Carteggio Artaud – Rivière

Jacques Rivière a Antonin Artaud – 1923, 1924 – Michele Maccagno
Antonin Artaud a Jacques Rivière – 1923, 1924 – Vinicio Marchioni, Benedetto Sicca, Fortunato Cerlino
Emily Dickinson a Thomas W. Higginson – 1869 – Francesca Ciocchetti

 

 

SECONDA PARTE

Emily Dickinson a Elizabeth Holland – 1866 – Elisabetta Ferrari
Emily Dickinson a Elizabeth Holland – 1870 – Claudia Coli
Emily Dickinson al Dottore e alla Signora Holland – 1858 – Anna Della Rosa
Georg Trackl a Hermine Von Rauterberg – 1908 – Irene Petris
Vita Sackville-West a Virginia Woolf – Cartolina illustrata – 1926 – Elena Cepollaro
Vita Sackville-West a Virginia Woolf – 29 gennaio – 1926 – Elena Cepollaro
Dylan Thomas Lettera d’amore a Caitlin – 1950 – Lorenzo Piccolo, Leonardo Maddalena
Charles Bukowski ad Ann Barman – 1963 – Cristiano Nocera
Emily Dickinson a Otis P. Lord – 1878 – Giulia Zeetti
Emily Dickinson a Otis P. Lord – 1878 – Giovanna Di Rauso
Emily Dickinson a Otis P. Lord – 1878 – Silvia Masotti
Emily Dickinson a Otis P. Lord – 1878 – Ilaria Falini
Marina Cvetaeva a Boris Pasternak – 1929 – Camilla Zorzi
Susette Gontard Diotima a Hölderlin – 1798 – Ilaria Genatiempo, Tatiana Lepore
Boris Pasternak a Eugenija – 1931 – Fortunato Cerlino
Franz Kafka Lettera a Milena – Riccardo Festa
Emily Dickinson a Otis P. Lord – 1883 – Pilar Perez Aspa
John Fante, Lettera a Stan e Howard – febbraio 1954 – Alessandro Loi, Giovanni Vaccaro, Alberto Onofrietti,
Lorenzo Bartoli

Materiali
Introduzione di Roberta CarlottoUna vita dedicata. Conversazione con Luca Ronconi di Gianfranco CapittaNota di Emanuele TreviLungo viaggio verso Santacristina. A lavoro con Luca Ronconi

In anni così difficili, dove tutto ciò che riguarda la ricerca e la didattica sembra relegato agli ultimi gradini dell’interesse generale, è davvero confortante poter dire che la Scuola di Perfezionamento per Attori di Santacristina è giunta al suo terzo anno di attività, con un entusiasmo e una partecipazione sempre maggiori.
Abbiamo lavorato in condizioni particolarmente favorevoli per la costante attenzione delle istituzioni, in particolare la Regione Umbria, ma anche il Comune e la Provincia di Perugia e, da quest’anno, il Rettore dell’Università per Stranieri, Stefania Giannini, con la quale è stato possibile progettare il corso del 2006 che si conclude con il saggio La mente da sola. Mosaico di lettere.
Ma la specificità della Scuola di Santacristina è data dalla presenza costante e insostituibile di Luca Ronconi, che da molti anni ha visto nel rapporto con le nuove generazioni e nella didattica, la possibilità non di trasmettere il proprio metodo di lavoro, ma di mettere l’attore nella condizione di saper analizzare un testo e di controllare la propria espressività.
Il primo obbiettivo di questa Scuola è quello di mettere a disposizione dei giovani gli strumenti necessari che permettano loro di durare nel tempo, per combattere la precarietà artistica e cercare di allontanarli dalla tipica vocazione italiana a portare in scena sempre e solo se stessi, educandoli ad essere interpreti e non maschere autoreferenziali.
Il nuovo rapporto con l’Università per Stranieri di Perugia ci ha portati quest’anno a orientarci, sia per la scelta dei testi sia per i contributi didattici, su un terreno letterario più che strettamente drammaturgico; esperienza per altro non nuova per Ronconi, che ha messo in scena in varie occasioni testi letterari, dal Pasticciaccio di Gadda al racconto di Fleur Jaeggy I beati anni del castigo, come saggio della Scuola del 2004.
La mente da sola. Mosaico di lettere è un montaggio a cura di Emanuele Trevi, il quale ha costruito un affascinante copione con gli epistolari di alcuni tra i più significativi artisti della modernità: poeti come Emily Dickinson e Keats si alternano a grandi narratori contemporanei come John Fante e Charles Bukowski, ma ci sono anche l’epistolario tra Artaud e Rivière e le lettere di personaggi come Mozart, Vita Sackville-West, Kafka, Pasternak, Marina Cvetaeva. A introdurre e ad approfondire la conoscenza di alcuni di questi autori abbiamo avuto lezioni specifiche di Emanuele Trevi assieme ad altri docenti come Barbara Lanati, che ha tradotto le poesie e gli epistolari di Emily Dickinson, Nadia Fusini per Keats, Kafka e Virginia Woolf, Serena Vitale per la Russia degli anni grandiosi e terribili di Pasternak e della Cvetaeva.
Oltre che sulle possibilità drammaturgiche insite nello scambio epistolare, altri materiali di lavoro sono stati alcune esercitazioni sul Gabbiano di Cechov, un corso con Massimo De Francovich sul teatro di Italo Svevo e un incontro con il regista Mario Martone. Un altro momento di studio è stato poi dedicato all’Odissea a partire dal testo di Botho Strass Itaca e con l’aiuto dei due studiosi Pietro Boitani e Giuseppe Aurelio Privitera.
Ma credo che anche il modo in cui è organizzata la Scuola abbia la sua importanza: si vive e si lavora assieme, per l’intera giornata, in un luogo isolato nella campagna umbra, che Gianfranco Capitta descrive nella nota contenuta in questo libretto. Gli allievi sono già attori professionisti, diplomati nelle migliori scuole nazionali o provenienti dalle più diverse esperienze teatrali. Su 350 domande, quest’anno sono stati scelti venticinque attori, otto uditori e due registi. Durante il corso, che ci ha visti impegnati dalla metà di luglio al 30 agosto, Ronconi ha seguito personalmente tutti gli allievi, affiancato dal regista assistente Carmelo Rifici e da Maria Consagra, che ha curato i movimenti scenici.
Per il resto, a organizzare il tutto, ci siamo Claudia di Giacomo e io, che cerchiamo di dare alla Scuola un carattere il più possibile aderente alle scelte didattiche, senza burocrazia e con estrema flessibilità.
Molte scuole seguono un metodo, altre ne inventano. Non è il nostro caso. Dice Ronconi: “Così come ho cercato di evitare di fossilizzarmi in una didattica preconfezionata, ho pure cercato di evitare di trasmettere ai miei allievi rassicuranti e indiscutibili verità, preferendo invece diverse possibilità di comportamento, un metodo problematico, fatto di pluralità di metodi”.

Non è semplicissimo arrivare alla scuola di teatro Santa Cristina. Lasciata la superstrada affollata di camion e di turisti, bisogna arrampicarsi per luoghi dai nomi suggestivi (Casa del diavolo…) e poi sdiruparsi per certi viottoli che il sole rende assoluti. Il rumore diminuisce, si affievolisce il senso dell’orientamento e bisogna procedere piano per chilometri per arrivare a quella casa tutta bianca e longitudinale. Edifici diversi che si allungano, e un senso attutito della realtà. Infatti se ci si affaccia in una delle due grandi sale (che da una parte proseguono con un ampio living, la cucina, le stanze da letto, come celle di un convento dell’arte contemporanea) sembra di entrare direttamente in palcoscenico. I grandi pavimenti di legno non rinviano tanto a una palestra, se non una palestra di sentimenti. Così come il concetto di “sala prove”, servirà alle prove della vita, almeno di quella artistica. E fuori del gruppo qualcuno isolato che legge o ripete.
Così penserà il visitatore, che certo può fantasticare di falansteri e di utopia, davanti a questa isola teatrale affacciata sulla vallata. Invece, la vitalità dei giovani attori e il dinamismo imperturb abile di Luca Ronconi (che da sempre abita poco più su) comunicano subito un fervore che quella quiete rende solo discreto e ovattato. Dietro un’apparenza di pace ancestrale, basta una parola, una frase di un testo a infiammare l’atmosfera. Una scuola ideale – verrebbe da dire mentre i giovani improvvisano la propria “parte” – e assolutamente libera. E il maestro non vota e non punisce, ma lavora con la forza dell’esempio e della seduzione. Le sue letture trasformano in grande teatro, in relazioni strettissime, in una ricchezza infinita di senso e di possibili espressioni, i frammenti dei testi presi a strumento di scuola e di rappresentazione. Ogni parola scopre un giacimento di pensiero, ogni pregiudizio o etichetta cade davanti a quella creatività che non trova frontiere. Le “prove di Ronconi”, che sono nella leggenda di chi vi partecipa (e di chi per caso vi assiste) una esperienza sempre ricca e straordinaria, qui si confrontano con le chance che ogni giovane attore è venuto a giocarsi per la propria formazione. Qualcuno di loro è un volto già conosciuto, si è fatto notare in qualche spettacolo, magari di un linguaggio molto lontano da quello che pigramente si associa a Ronconi. Ma ciò non fa che accrescere il fascino di queste scintille creative.
In un biancore di scuola di campagna, mentre Ronconi da vero maestro scopre in ogni parola un abisso di significato, si sente nascere e moltiplicarsi tutto il teatro del mondo. Ma anche un modo di conoscersi e di scoprirsi, che ogni attore potrà portare poi sul proprio palcoscenico.

Quanto ti sta a cuore questa scuola?
Mi sta a cuore certamente, ma dovrebbe stare a cuore a molta altra gente più che a me. Perché non serve solo una scuola di formazione, ma servirebbe anche un’attività di aggiornamento. Non a caso in questa scuola gli attori sono già tutti professionisti, diplomati da altre scuole. Ma in questa occasione quello che è previsto è un confronto reciproco, una “messa in comune”.

Quindi è utile anche a te?
Se non mi fosse utile, non la farei.

Dura quasi due mesi e quindi è forzatamente intensiva, per sfruttare tutto il tempo disponibile.
Sì: si sta insieme dalla mattina alla sera, dentro la scuola si dorme e si mangia insieme. Poche distrazioni.

E quale materiale fa da supporto alla struttura formativa?
Come già due anni fa, i materiali non sono strettamente drammaturgici, ma letterari. Inoltre prendiamo a esempio un testo teatrale che tutti conoscono, Il gabbiano di Cechov, che molti hanno fatto magari quando stavano a scuola. Quasi “per semplificare”, perché lo conoscono tutti. Molti degli attori che si sono presentati ai provini, avevano fatto il Il gabbiano, allora, visto che ci avevano lavorato, ho pensato, lavoriamoci assieme, prendendone qualche scena.
L’attenzione maggiore, quest’anno, va però agli epistolari, che sono stati raccolti da Emanuele Trevi e che presenteremo alla fine, come “saggio finale”, per un giorno, perché certo non facciamo questo lavoro per produrre uno spettacolo, e quindi per un giorno solo mostreremo il nostro lavoro, come abbiamo fatto l’altra volta. Perché le lettere? Intanto sono per lo più lettere di scrittori, partendo dall’epistolario di Emily Dickinson, attorno al quale si inseriscono altre lettere che vanno da Katherine Mansfield a Mozart, da Pasternak a Bukowsky…

Qual è il legame tematico?
Non c’è. Non c’è un legame tematico preciso, ci sono pure associazioni. La cosa interessante è questa: non è una novità fare epistolari a teatro, però quando si fanno succede sempre che l’attore finisce con l’identificarsi con l’autore della lettera. Qui invece la lettera può essere vista da due parti: chi la scrive e chi la riceve, le due attività sono completamente diverse. La lettera può essere scritta e letta. A noi interessano tutti e due gli aspetti. Simultaneamente. A intermittenza. Dialetticamente. Di volta in volta.

Scrivere una lettera, in astratto, potrebbe essere l’opposto del teatro.
È una comunicazione senza interlocutore presente, certo, però ha anche molto a che fare con il teatro, perché scrivere una lettera è fare una rappresentazione, è un mettersi in scena davanti a nessuno. Allo stesso modo in cui, spesso chi legge annulla la rappresentazione dell’altro. Sono problemi che coinvolgono l’identità, il rapporto intersoggettivo. Che sono la base di tante forme drammaturgiche: per attori che hanno deciso di proseguire su questa strada, penso sia un buon esercizio.

Chi sono le altre persone che lavorano con te?
Massimo De Francovich (che ha lavorato sul teatro di Svevo), Maria Consagra, e poi degli ospiti, studiosi di alcuni degli autori delle lettere, da Barbara Lanati per le lettere della Dickinson, a Nadia Fusini per Kafka e Keats, a Serena Vitale per Pasternak e Cvetaeva. E poi Giuseppe A. Privitera e Pietro Boitani per l’Odissea.

Tutta la scuola si svolge dentro a una casa. Dopo che ti sei lamentato tante volte a Roma per le troppe distrazioni degli attori, si arriva dentro una sorta di falansterio chiuso…
Ma ci si lavora bene. Ci stanno tutti volentieri, anche l’anno scorso che erano un po’ “pressati” perché erano tanti.

Il modello sembra essere il campus americano, che da noi è insolito.
Infatti si lavora su più fronti: sui testi ma anche sul corpo e sul movimento, attività di cui si occupa Maria Con sagra.

Tu fai una cosa abbastanza estranea alla cultura italiana. Costruisci una sorta di mondo parallelo.
Sarà fuori dal mondo, però quest’anno c’erano 350 domande di ammissione, che non sono poche. C’è la sensazione tangibile che molti giovani attori cerchino altro rispetto a quello che c’è nel nostro teatro. Al di fuori della frenesia dello stage, e senza neanche la finalizzazione a un lavoro successivo

Una scuola implica allievi e maestri. Ma se tu dovessi riconoscere dei maestri, quali nomi faresti?
Maestri sono tutti quelli da cui ho imparato qualcosa. È difficile dirlo, avendo in qualche modo “rubacchiato” un po’ dappertutto, non solo ai colleghi, più vecchi e più giovani, e agli attori, più vecchi e più giovani, e anche alla gente comune, più vecchia e più giovane… Non posso dire, del resto, che non siano stati miei maestri mia madre, o i miei compagni di scuola. E così via. Si possono fare dei nomi se ci si riconosce in una estetica precisa, che non è il mio caso.
È evidente che il maggior maestro per te sei stato tu stesso, e la tua curiosità. Però prima, parlando ai tuoi allievi, hai nominato Orazio Costa, e hai spiegato che un tempo c’erano personalità teatrali con le quali era impossibile non confrontarsi.
Negli anni Cinquanta ho frequentato come attore l’Accademia d’arte drammatica. Indubbiamente allora il nume tutelare dell’Accademia era Orazio Costa, e io da giovane ho lavorato come attore con lui. Ma posso dire di essere stato sempre naturalmente agli antipodi del suo mondo, della sua religiosità, anzi di quel tipo di radicalismo religioso in cui egli viveva, o meglio ancora di quel suo assolutismo religioso. Io sono sempre stato prigioniero del relativismo.
Laico e relativo, qualcuno, molto in alto, avrebbe da ridire…
Eppure non mi è venuto mai in mente di disconoscere, in nome delle rispettive differenze, il valore di Costa. Faccio un esempio: a un certo punto della sua vicenda artistica, si è messo in discussione non il suo modo di operare, ma il suo valore. La differenza è stata proprio nel riconoscere anche in chi non ci riguarda, l’oggettività di un valore reale. Oppure pensare che il valore di certe ricerche, di certi modi, di un certo rigore, di certa serietà, sia inesistente.
I giovani attori con cui lavori questa volta (ma con alcuni di loro lavori già da tempo) che modelli di attore hanno come riferimento?
Hanno i modelli più disparati, che possono riflettere quella valanga di metodi e tendenze che hanno invaso il teatro negli ultimi quarant’anni…

Addirittura “mode”?
Anche mode certo. Per moltissimi, fare uno spettacolo (ed è una posizione giusta e interessante) vuol dire “fare un’esperienza”. Se non fosse che poi le esperienze ti rimangono appiccicate addosso. Molto spesso l’esperienza non è solo un fattore di conoscenza, ma entra a far parte di cosa si diventa.

In questa scuola sui colli di Gubbio, così bella e quasi separata dal mondo, che a tratti sembra il luogo dell’utopia, ci siete tu, questi giovani attori e dei testi, che non sono neanche tutti nati per il teatro…
Non è vero che ci sono solo io, ci sono parecchie altre presenze. Da Roberta Carlotto, con la quale abbiamo pensato la Scuola, a Claudia Di Giacomo, a altri registi come Carmelo Rifici, Fabrizio Arcuri e Roberto Latini, agli ospiti specialisti che ho citato. Non perché debba essere qualcosa di tipo universitario, ma perché il collegamento tra cose differenti mi pare qualcosa di cui ci sia bisogno.

…in questo luogo così curioso e poco definibile, viene sfatato subito l’equivoco “universitario” della specializzazione. Questi giovani attori su quei testi “partono” in maniera clamorosa, quasi trovassero delle scintille molto feconde…
Una cosa che si è persa (e sarebbe interessante sapere perché si è persa) è che dedicarsi a questo lavoro dovrebbe essere innanzitutto un piacere oggettivo, e non invece un autocompiacimento. Al contrario, molto spesso, questi ragazzi attraverso il lavoro cercano una identità. Una volta che questa identità se la sono fatta, tendono a imprigionarsi, come fosse una trappola o un carcere. Se invece consideriamo questa attività come qualcosa che deve darci soprattutto un piacere, non solo del corpo e di tutte quelle che sono le manifestazioni fisiche dell’attore, ma anche un piacere dell’intelligenza…

…c’è quasi pudore a riconoscerlo, ma passare qui mezza giornata mostra prima di tutto un carattere di gioco, di piacere collettivo a fare questo lavoro…
Certo. Poi un conto è il gioco e un altro conto è lo scherzo. Quando si lavora per gioco vuol dire che si cerca di farlo con serietà e con intelligenza, e non tanto per divertirsi, o come passatempo.

Si coglie, tangibile, un bel clima, come anche le dinamiche tra di loro. Molti si spostano per vedere meglio chi prova in quel momento…
È vero. Poi naturalmente ci sono anche delle simpatie e delle insofferenze, però, comunque sia, trenta persone che vengono da parti assolutamente diverse, finiscono con l’incontrarsi.

C’è una differenza tra il lavoro che fai qui e quello che ti tocca quando riunisci una compagnia di quaranta persone, magari per una produzione di una grande istituzione come il Piccolo Teatro?
È esattamente la stessa cosa. Questo lo dico sempre, anche quando inizio i corsi a scuola: io non sono capace di fare una “didattica”, non ho niente da “insegnare”. Anche davanti a uno che comincia, mi metto esattamente nella stessa posizione. Qui, provando Il gabbiano, mi pongo gli stessi problemi che mi porrei provando con un’attrice “sublime” che debba fare Arkadina, o con un giovane bravissimo e già collaudato che debba fare Konstantin.

Però qui il lavoro non sfocia in uno “spettacolo” finale, a parte la dimostrazione pubblica prevista. È difficile credere che per te sia la stessa cosa.
Facendo una cosa di questo genere, anch’io mi sento molto più libero. Non avere la responsabilità della “produzione” e non avere neanche la corresponsabilità del loro eventuale “fallimento” (ma come regista cerco sempre di garantire a ogni attore il miglior risultato possibile), fa sì invece che non debba a tutti i costi “aggiustare il tiro”, anche a costo di deflettere ogni tanto dal rigore che ci dovrebbe essere. Qui non c’è motivo: se anche uno non è perfettamente a fuoco nel pezzo che fa, pazienza: non ne va della sua carriera.

Questa libertà diventa quindi una chance in più, senza la tagliola del “mercato” sul collo. Resta il fatto che questa scuola atipica, a parte le persone e la bella architettura del luogo, non ha burocrazia né alcunché di istituzionale
Direi proprio di no. Non c’è niente di istituzionale. I suggerimenti che do, premetto che vanno presi in quanto tali. Quello che io posso comunicare, non sono verità assolute né metodi garantiti. Sono semplicemente mie opinioni e parte della mia esperienza. Indubbiamente possono aiutare dei giovani attori. Una volta perso (e penso sia un vantaggio averlo perso) un certo codice omologato di come si lavora in teatro e di come si recita, bisogna dire che quel codice, per quanto deprecabile, ti dava delle basi, e ti permetteva di adeguarti o distaccarti.

O anche di combatterlo…
Certo, combatterlo. Cosa che mi sono trovato pure a fare. Ma la sua totale assenza rende più difficile sapere da dove si parte. I giovani attori che sono qui, si sono trovati a ricoprire (bene o male non posso dire, perché non li ho visti) nei teatri dove hanno lavorato, parti e ruoli che dovrebbero essere sufficienti a farli considerare attori maturi. E invece non è così, loro stessi non si sentono maturi. Si sentono semmai precari non soltanto sotto l’aspetto professionale, ma nella proposta stessa che possono fare alla professione. Non sono proprio abituati a decidere di un personaggio se è un personaggio, di una battuta se è una battuta, di uno spazio se è uno spazio, di un insieme drammaturgico se è un insieme drammaturgico, e quali siano tutte le possibili combinazioni, prima di fare l’opzione giusta. Né di fare in ogni caso una scelta di qualche tipo: procedono un po’ a tentoni, secondo se stessi, che non è sempre una buona bussola…

“Se stessi” è lo strumento maggiore che hanno?
Se stessi, il mero gusto, generalmente generazionale, di quello che hanno visto, quello in cui si sono maggiormente riconosciuti…

Anche se nel lavoro assieme, su tre righe di una lettera, tu di fatto costruisci loro quasi una “parte”…
Il primo scopo è per me di portarli ad avere un occhio sufficiente (e abbastanza curioso e smaliziato) da poter leggere oggettivamente qualche cosa, piuttosto che cadere dentro delle trappole costituite dal gusto, dal linguaggio corrente eccetera. Anche nelle poche righe di una lettera, cerco un percorso di semplice lettura per capire almeno qual è l’organizzazione interna del discorso.

Ti prepari a lungo su quelle tre righe che fai fare a loro?
No, improvviso e basta.

Tu improvvisi?
Io improvviso sempre.

Ma hai una certa storia dietro…
Non è questione di storia: non vorrei dirlo perché non sento benissimo, ma ho un certo orecchio… (e forse proprio perché non sento). Da come uno si comporta e da quello che dice, capisco rapidamente come dovrebbe essere. Quanto al prepararmi, non voglio per scelta prepararmi. Faccio l’esempio di uno dei testi su cui lavoriamo, le lettere della Dickinson. Ad avere più difficoltà è proprio chi si è preparato e ha studiato tutto sulla poetessa americana, e cerca di mettere a forza delle cose libere dentro dei cassetti predisposti. Invece quelle cose non appartengono ad altro che al senso comune, e questo si rivela molto più utile per entrarci. A momenti anch’io mi sento arbitrario e “testa matta”, ma mi funziona solo se so anche che cos’è il senso comune.

Gli attori di oggi sono diversi rispetto ai giovani attori di un tempo…
Prima non sarebbe potuto succedere che un attore che aveva passato la trentina, si guardasse indietro, e vedesse che in fondo aveva fatto tante esperienze ma senza lasciare pietre importanti. La precarietà oggi prende il posto della quotidianità come supporto del fare l’attore. L’importante può essere partecipare o assumere responsabilità, ma più importante ancora è capire e convincersi che da qualche parte c’è qualcosa, da cui magari distaccarsi. Importante è che comincino a rendersi conto che, se non c’è un legame con la tradizione, il rinnovamento è impossibile. Per trent’anni si è confuso il rinnovamento con l’alternativa. Oggi l’alternativa è diventata vecchia pure lei, come ogni altra cosa, e anche più precocemente. E la tradizione non va confusa con il vecchiume, o con la routine. È invece qualcosa che bisogna conoscere: se non conosci la tradizione, essa finisce col fregarti, e con i suoi aspetti peggiori. Non è un caso che i giovani che sono qui non solo leggano furiosamente, ma siano rimasti così affascinati dagli specialisti che sono venuti a parlare di Ulisse o della Dickinson. Privitera e la Lanati sono persone che hanno dedicato una intera vita di studio all’oggetto del proprio interesse. E anche la nostra, di noi teatranti, dovrebbe essere una vita “dedicata”.

Più di una volta, nel corso della sua corrispondenza, la grande poetessa americana Emily Dickinson ha paragonato la scrittura di una lettera all’ «immortalità». Non si tratta infatti, ragiona Emily, di una forma di comunicazione in cui si esprime «la mente da sola, senza compagno corporeo?». Questa circostanza non indica certo un minor potere della lettera rispetto ad altre possibilità di scambio linguistico. Fin da Platone, che dedica il Fedro all’analisi di questo argomento fondamentale, la scrittura è diversa dall’oralità proprio perché è una lingua che si allontana dalla potestà, e dal controllo, di chi la parla. Non c’è più un corpo, una presenza reale a garanzia di ciò che viene detto.
Così, secondo la “platonica” Emily Dickinson funziona lo scambio epistolare, fondando una specie di quarta dimensione, di spazio intermedio tra la presenza fisica e l’assenza assoluta. Ed è proprio un sondaggio delle possibilità drammaturgiche insite in questo spazio intermedio – una “scena” mentale che potrà anche essere intesa come metafora possibile dello spazio teatrale – che questo progetto si propone di compiere, accostando alle splendide lettere della Dickinson autori diversi per epoca, carattere, stile, atteggiamento verso il destinatario. Il ruolo di quest’ultimo non può minimamente essere sottovalutato proprio da chi indaghi sulle potenzialità drammaturgiche degli epistolari. Non solo perché a una lettera segue il più delle volte una riposta, alla quale a sua volta seguirà una nuova lettera, fino a che l’intero carteggio assumerà l’aspetto di un dialogo “differito” nello spazio e nel tempo. A questa prima, e ovvia considerazione, ne va subito aggiunta un’altra, forse ancora più decisiva. La presenza del destinatario è infatti evidente anche nella singola lettera, anche nella lettera che non ha mai avuto una risposta. Come il recipiente dà forma al liquido che vi viene versato, così ogni lettera, in maniera più o meno esplicita a seconda dei casi, è un ritratto del destinatario. Tanto più veridico, paradossalmente, quanto più è arbitrario, dettato da interessi personali, deformato dall’urgenza degli affetti, delle passioni, dei timori. Il più “informe” dei generi di scrittura, il più svincolato (almeno nella modernità) da regole stilistiche e retoriche precise, si rivela insomma capace, nelle mani dei grandi scrittori, di un grado insospettabile di realismo psicologico, senso della realtà, capacità di “fotografare” in immagini credibili il continuo e inarrestabile fluire del tempo e dei sentimenti.
Una ulteriore e affascinante possibilità di spremere il massimo di senso dai testi prescelti è data agli attori dal fatto che, nella loro “esecuzione” della lettera, essi non sono affatto obbligati a identificarsi esclusivamente con chi scrive. Questa è solo una possibilità, visto che la lettera, in quanto evento reale di una comunicazione, viene ricevuta, e il primo a “recitarla” è sempre il suo destinatario. Il ricorso ad una celebre opera figurativa potrà forse aiutare a chiarire ulteriormente questo concetto: si tratta della tela di Vermeer dedicata a un’anonima lettrice, che tiene in mano i fogli di una lettera appena arrivata, creando attorno a sé un’atmosfera, mirabilmente eseguita dal grande pittore, di solitudine e intensa concentrazione. Questo spazio fisico e mentale ha il suo baricentro nello sguardo che la ragazza, quasi volesse penetrarne l’intima essenza, affonda nella scrittura dei fogli che tiene in mano. Allo spettatore non è dato capire se le notizie della lettera siano buone o cattive, e questa accortezza degna di Vermeer arricchisce incredibilmente la pregnanza psicologica della rappresentazione. Non solo gli occhi della giovane donna e le mani che reggono i fogli della lettera sono coinvolti in questa esperienza, perché tutto il suo corpo, immobile e circondato di luce, collabora in qualche modo all’avventura, al silenzioso dramma che si sta svolgendo. Un dramma di cui non sapremo mai nulla, e di cui possiamo immaginare tutto. Senza pensarci, Vermeer ha costruito un vero e proprio spazio scenico, un luogo di continuo scambio e contaminazione tra ciò che appartiene al regno invisibile dei sentimenti e delle emozioni e ciò che è invece visibile, gli spazi e i gesti di un certo momento dell’esistenza.
La scelta di lettere di cui si compone La mente da sola offre agli attori una grande gamma di toni, situazioni psicologiche, stili d’espressione. Dal “corpo centrale” dell’epistolario di Emily Dickinson, si staccano altre voci, ora tristi ora allegre, ora maschili ora femminili, sincere e bugiarde, amiche e innamorate. Si tratta di alcuni fra i più grandi scrittori della modernità, a volte accompagnati (come nel caso di Antonin Artaud) dai loro interlocutori. Poeti come Keats e Rilke si alternano a grandi narratori contemporanei come Charles Bukowski…Una vera e propria “drammaturgia epistolare” è inserita inoltre all’interno del “mosaico”: si tratta del famoso carteggio tra Artaud e il critico Jacques Rivière, che comprende l’autenticità e il valore umano e intellettuale del suo giovane interlocutore, pur rimanendo diffidente sul punto centrale della “follia”. Tra i materiali selezionati, è stata utilizzata anche una lunga lettera di John Fante, datata 1954, che è un vero e proprio “romanzo condensato” in forma epistolare.
La successione dei testi non segue un preciso filo narrativo, ma è tutta giocata sulle assonanze, le divergenze, le possibili simmetrie che gli attori e il pubblico intenderanno cogliervi. Al termine di ognuno di questi piccoli “labirinti epistolari”, sarà sempre un nuovo gruppo di lettere di Emily Dickinson a riannodare e rilanciare il filo del discorso.