20 Ottobre 2017

2008 / Nel bosco degli spiriti

Lo spettacolo nasce come evento inaugurale per l’apertura del Teatro Cucinelli nel borgo umbro di Solomeo. Oltre alla regia di Luca Ronconi, il progetto si avvale della drammaturgia di Cesare Mazzonis, che lavora su due romanzi brevi dello scrittore nigeriano Amos Tutuola, Il bevitore di vino di palma e La mia vita nel bosco degli spiriti, e delle musiche di Ludovico Einaudi.


Locandina/Programma
Solomeo (Pg), Teatro Cucinelli
3/7 settembre 2008

Brunello Cucinelli presenta

NEL BOSCO DEGLI SPIRITI
un progetto di Luca Ronconi, Ludovico Einaudi, Cesare Mazzonis

drammaturgia Cesare Mazzonis
da La mia vita nel bosco degli spiriti di Amos Tutuola

musiche Ludovico Einaudi

scene Margherita Palli
costumi Gianluca Sbicca
luci Nevio Cavina

regia Luca Ronconi

con Fausto Russo Alesi, Riccardo Bini, Vinicio Marchioni, Fabrizio Nevola, Marco Vergani
danza Ibrahim Ouattara
voce Rokia Traorè
live eletronics Robert Lippok
percussioni ed elettronica Ronald Lippok
kora Ballakè Sissoko
ngoni Moriba Koita
percussioni Sékou Diabaté
pianoforte Ludovico Einaudi

video concept Matteo Ferroni
video design Lorenzo Curone
maschere Michele Guaschino

regista collaboratore Fabrizio Arcuri
assistente musicale Alberto Fabris
assistenti ai costumi Virna Rampinini, Gianluca Carrozza

direttore di scena Rudy Santoni
capo macchinista Graziano Salis
capo elettricista Simone De Angelis
fonico Gianluca Costanzi
sound designer Paolo Giudici
piano tuner Fabio Angeletti
macchinisti Evandro Menichelli, Leris Milan, Antonio Caiafa
elettricista Umberto Giorgi
attrezzista Marco Mosca
sarte Valentina Poli, Giuliana Rossi, Denise Spaterna

responsabile di produzione Claudia Di Giacomo (PAV), Anna Damiani
tour manager Ponderosa Gianluca Mancini

si ringrazia Claudio Longhi, Luigi Laselva, Lorenzo Letizia, Comune di Terni-Assessorato alla Cultura, Indisciplinarte, Centro Multimediala di Terni

una produzione Centro Teatrale Santacristina

Materiali
Nel bosco degli spiriti di Cesare MazzonisAppunti di regia di Luca RonconiLa musica di Ludovico EinaudiUna fiaba africana per Luca Ronconi. Intervista di Leonetta BentivoglioLudovico Einaudi, musica del mondo e del presente. Intervista di Leonetta Bentivoglio

Lo spettacolo Nel bosco degli spiriti nasce dalla commistione di due romanzi brevi, pubblicati in un solo volume dalla Casa Editrice Adelphi: Il bevitore di vino di palma e La mia vita nel bosco degli spiriti, dello scrittore nigeriano Amos Tutuola.
Di questi scritti ci hanno affascinato un mondo e un modo di descriverlo: estrema originalità, e stranezza, di fatti e di stile. Infatti qui la favola convive con la cronaca, il mito con il racconto picaresco, l’ancestrale e tribale con dati e usi contemporanei che nel contesto diventano esilaranti. Così la morte si vende per un numero preciso di sterline, scellini e pence, e la paura si acquista ratealmente. Basti pensare al tema di quello dei due romanzi sul quale essenzialmente ci baseremo: Il bevitore di vino di palma. Un preciso mito orfeico e sciamanico (viaggio nell’Aldilà per recuperare un essere amato, e morto) si addobba di una veste, costume e maschera assolutamente grottesche: l’Orfeo di Tutuola è un impenitente bevitore che si reca nel Paese dei Morti per recuperare il suo defunto spillatore di vino di palma. E le avventure che gli capitano (corrispondenti alle note “tappe” nelle fiabe di magìa e alle fasi di iniziazione nel rito) sono a un tempo terrorizzanti e ridicole: il tutto scritto con uno stile tra lo stravagante e il puntiglioso.
Tutuola scriveva in un inglese tutto suo: lui nigeriano, di etnia yoruba, che lavorava come fattorino, aveva inviato il manoscritto di questo libro a un indirizzo letto su una réclame. Capitò per fortuna tra le mani di una persona d’intuito che lo spedì a Faber & Faber, e il libro venne pubblicato nel 1952 a Londra e divenne subito un “caso”.
Ma non è stato soltanto il fascino della stranezza a farci decidere per questo testo. E’ stata anche la sua curiosa struttura, che permette interventi sia musicali che danzati, canzoni, episodi che possono narrarsi o mimarsi.
E infine il piacere della commistione che qui può usarsi liberamente, anzi che è richiesta dal tipo di storia raccontata. Qui possiamo narrare o recitare, far sembrare un episodio reale o del tutto inventato, utilizzare musica etnica associata a musica occidentale, strumenti africani a strumenti classici, usare suoni pre-elaborati, ecc. E’ così che il compositore Ludovico Einaudi, notissimo per alcune riuscite esperienze in quest’area, si è trovato quasi automaticamente legato a noi. E con lui alcuni suonatori, una cantante e un danzatore africani.
Commistione nel rappresentare insita nel testo che, come già detto, coniuga motivi ancestrali e contemporanei, immagini nate dalla favola (mostri inverosimili) o, talvolta, che sembrano fuoriuscire da un film degli anni Quaranta (una “signora elegante” in abito lungo e tacchi a spillo). Ci auguriamo dunque un “intelligente divertimento” e un numero di “piacevoli sorprese” per il pubblico che presenzierà, con questo spettacolo, all’inaugurazione del nuovo teatro che è anch’esso un’intelligente e piacevole sorpresa sbocciata all’improvviso.

Se vincendo la mia istintiva insofferenza per le etichette classificatorie o le riduzioni a teoria della complessità del reale dovessi rintracciare nel mio lungo viaggio attraverso il teatro un filo rosso capace di legare le mie diverse esperienze, sarei tentato di individuarlo in una visione della regia come un fertile terreno di sperimentazione di nuovi orizzonti drammaturgici: muovendo da un rispetto maniacale del testo, la regia, a mio giudizio, ora è andata a riempire il posto vuoto lasciato da una nuova drammaturgia sempre più ‘latitante’, ora è arrivata a prospettarsi ai miei occhi come un elastico trampolino per scavalcare il concetto stesso di copione scritto. In questo mio liberissimo percorso scenico – asistematico e non pianificato, ma non per questo casuale – spesso le scritture non teatrali – dal romanzo al saggio scientifico, dalla sceneggiatura cinematografica alla pagina di giornale – mi si sono spontaneamente offerte come altrettante suggestive vie di fuga per evadere dalle costrizioni delle più viete convenzioni drammaturgiche, codificate dall’inerzia delle abitudini. Ed è proprio in questa fuga attraverso i generi per superare i modelli di scrittura teatrale più stereotipati che in questi ultimi tempi la mia attenzione è caduta sulla favola, avvincente «catalogo dei destini che possono darsi a un uomo e a una donna», per dirla con Calvino, «soprattutto per la parte di vita che appunto è il farsi di un destino: la giovinezza, dalla nascita che sovente porta in sé un auspicio o una condanna, al distacco dalla casa, alle prove per diventare adulto e poi maturo, per confermarsi come essere umano».
Dopo i lontani echi delle favolose fabulae ariostesche, già matrici delle avventure dell’Orlando, o delle suadenti melodie dell’Uccellino azzurro di Maeterlinck, a distanza di decenni lo sterminato repertorio fiabesco si è tornato ad imporre alla mia attenzione attraverso Il bevitore di vino di palma e La mia vita nel bosco degli spiriti, coppia di effervescenti romanzi brevi o racconti lunghi di Amos Tutuola, scrittore nigeriano scomparso poco più di dieci anni or sono, dai tratti sfuggenti e dalla biografia malcerta e in odor di leggenda, come ben si conviene ad ogni vero contafavole nel più genuino rispetto della vocazione all’anonimato impersonale (rigorosamente popolare) di ogni favola che si rispetti. Ragioni della scelta: la grazia sottile di queste narrazioni di prodigiosa leggerezza, capaci di sintetizzare, nella prospettiva di uno sguardo infantile al tempo stesso irridente e sbalordito, l’ironia più mordente e l’incanto più sottile. In questo divertito ritorno alla fanciullezza riaffiora l’ipotesi di una spiegazione del mondo a partire dai miti, tutti tesi a raccontare e creare ad un tempo la realtà stessa.
Nel bosco degli spiriti – grottesco centone generato dal montaggio delle due narrazioni appena ricordate esplicitamente concepito per il rito battesimale del nascente teatro di Solomeo, utopia seducente frutto dei sogni, delle curiosità e del versatile eclettismo di Brunello Cucinelli – nasce quindi di lontano, nel cuore dell’Africa misteriosa, ma non ci sarà nulla di etnico nel nostro spettacolo e nulla di prodigiosamente immaginifico. L’esotismo, laddove farà capolino, sarà solo citazione giocosa o, al più, gustoso ingrediente di un succulento timballo drammaturgico cucinato sulle variazioni del mito; il mito, per parte sua, travestito da gioco della fantasia, darà vita ad un immaginario vorticoso e spumeggiante, in cui gli effetti speciali da fantasy cederanno il passo all’illusionismo di una straniante lanterna magica.
Convinto, sempre con Calvino, che la fiaba sia l’ultimo testimone della «sostanza unitaria del tutto» per il suo essere fisiologicamente luogo deputato dell’«infinita possibilità di metamorfosi di ciò che esiste», Nel bosco degli spiriti è per me innanzi tutto lo spazio privilegiato per una serrata inchiesta intorno ai codici del racconto teatrale. La sarabanda di divagazioni di cui è tramata l’odissea orfica del protagonista, sempre in bilico tra le terre della vita e della morte in un grottesco pastiche di quotidianità e mistero, tragedia e commedia, sublime e triviale, nel suo convulso dispiegarsi consentirà di svelare i segreti commerci tra racconto e scrittura, ascolto e lettura, azione e narrazione, così come di decostruire la monolitica identità forte del ‘Personaggio’, sciogliendolo in una costellazione di mobilissime figure, o di travasare il botta e risposta del dialogo teatrale in un vivido montaggio narrativo. Proprio tra le rovine della forma drammaturgica tradizionale prodotte dal terremoto favolistico di Tutuola, sulla scena del Bosco degli spiriti potrà levitare il linguaggio musicale. Raffinato interprete della multiforme koinè sonora contemporanea, notoriamente sensibile alle tentazioni della scena, sin dai primi passi di questo progetto Ludovico Einaudi è stato il mio naturale e primo interlocutore. Se per taluni aspetti la musica può darsi di per sé come un diretto riverbero delle cadenze della favola (nella mobilità di certa sua sintassi, nel suo spingersi ai confini estremi di razionalità ed emozione, in alcuni suoi giochi appassionati di improvvisazione), allora – entro le coordinate narrative del nostro spettacolo – il canto potrà diventare il ponte tra la parola e la musica; e la danza, a sua volta, l’anello di congiunzione della musica con l’azione scenica, in una stimolante riflessione intorno ai nuovi modi e alle nuove possibilità del teatro musicale.
L’approccio formale non è stato però, in questa occasione, l’unica porta d’accesso alla favola: come Propp bene insegna, in effetti, lo studio della Morfologia della fiaba non può andare mai disgiunto dall’analisi delle Radici storiche dei racconti di fate (ma non solo). Passeggiando nel bosco degli spiriti è così subito risultato chiaro che, lungi dal configurarsi come gratuito esilio dal mondo, la fiaba è innanzi tutto una leggendaria cassa di risonanza della cronaca. Stando bene attenti a non schiacciarlo sotto un insostenibile peso simbolico o allegorico, inevitabilmente pretestuoso e pretenzioso in rapporto alle sue reali possibilità di significato, Nel bosco degli spiriti ci è sembrato non solo una suggestiva metafora delle vicende esemplari della tragicomica vita di ‘Ognuno’, ma ad un tempo una levissima e garbata allusione in cifra alle speranze e ai lutti della storia (anche di oggi).

Luca Ronconi

Sono stato fin da subito affascinato all’idea di far parte di questo originale progetto. Mi ha colpito l’ambiziosa e tutt’altro che scontata visione di Brunello Cucinelli di costruire un nuovo teatro in cui coltivare le arti e lo spirito, insieme alla possibilità di realizzare insieme a Luca Ronconi e Cesare Mazzonis un nuovo progetto di teatro musicale che sicuramente, data la natura di instancabile sperimentatore quale da sempre è Ronconi, non avrà nulla di convenzionale e classificabile.
E poi naturalmente c’è il testo di Amos Tutuola, una storia che mescola leggenda e quotidianità, con degli sviluppi tutt’altro che prevedibili. Un testo visionario, a tratti allucinatorio, ma allo stesso tempo con una visione etica che si rivela alla fine della storia quando il protagonista ritornato finalmente a casa dopo il suo avventuroso percorso, esprime al suo “uovo magico” il desiderio che arrivi la pioggia per il suo popolo. E’ in questa atmosfera epica e rocambolesca quindi che la musica entra come uno degli elementi di una narrazione a più voci dove suoni, parole, azioni, canto e danza, si combinano e alternano in un composito intreccio a ricercare e restituire il senso di questa favola misteriosa.
Per poter lavorare in questa direzione ho creato un gruppo di lavoro composto da musicisti con delle caratteristiche diverse tra loro, alcuni africani, altri occidentali. Strumenti etnici, un pianoforte, altri strumenti inventati utilizzando barili, pezzi di bicicletta, conchiglie, ventilatori, fischietti, incudini e martelli insieme a strumenti elettronici, una tavolozza di colori per rendere musicalmente l’intricata foresta popolata da creature terribili descritta da Tutuola. E la voce di Rokia Traorè con delle ballate che sublimano i momenti topici del racconto. Se i suoni e i campionamenti elettronici creeranno gli sfondi e amplificheranno le ambientazioni, la presenza dei musicisti africani renderà vivi i colori e l’anima del testo. Le mie passate esperienze con la musica africana mi hanno messo in contatto con una cultura che ancora oggi ha un filo diretto ed estremamente vivo con una storia molto antica, che si perde nel tempo. E’ per questo che quando ho letto il libro di Tutuola ho ritrovato la stessa natura fiabesca che avevo incontrato nelle antiche ballate cantate dai griot, i cantastorie dell’Africa Occidentale. Forme musicali e di narrazione molto aperte che vengono rinnovate e modificate ogni volta a seconda di chi le suona e le canta. Storie antiche ma sempre mescolate a fatti recenti di cronaca; spesso si inseriscono personaggi viventi o si citano le persone presenti nel momento in cui si canta (un griot renderebbe sicuramente omaggio a Cucinelli e al suo nuovo teatro). Insomma un canovaccio che viene interpretato e arricchito giorno dopo giorno, anno dopo anno, secolo dopo secolo, che annulla il tempo e rende il mito contemporaneo.

Ludovico Einaudi

Quando non lavora al Piccolo di Milano o monta i suoi allestimenti in giro per il mondo, Luca Ronconi si rifugia a Santa Cristina, nei pressi di Gubbio, dove possiede da molti anni una casa austera e bellissima, circondata dagli olivi e cinta dalla visione spettacolare delle colline umbre, e dove ha stabilito un’importante scuola per attori e un centro di produzione teatrale. immerso in un mare di differenti tonalità di verde, Santa Cristina è un luogo di magiche distanze e di silenzio zen che gli somiglia: Ronconi è un uomo speciale, appartato e dall’aria dolcemente distanziata. la sua non è distanza dalle passioni, no davvero. Basta guardare i suoi spettacoli per capirlo. Basta considerare la sua storia di regista iper-prolifico e ossessivo, preso dal suo fuoco, catturato al cento per cento dalla propria vocazione. Quel suo atteggiamento sembra piuttosto stimolato da un orrore congenito per la futilità, o da un radicato sospetto per ogni forma di protagonismo. Ronconi è allergico all’esibizione narcisistica di sé. Esiste tutto e integralmente nel proprio fare. Un fare, certo, che può esprimersi nei grandi numeri, nelle durate iperboliche, nelle sfide impossibili. Ma è anche nel contrasto tra la sobrietà della persona e l’incontenibile fertilità del suo percorso di regista che può esprimersi l’unicità e l’imprevedibilità dell’artista. Per descrivere Ronconi, il Ronconi regista, il massimo maestro del teatro italiano e uno dei campioni più rispettati e celebrati del teatro internazionale, autore di oltre cento regie teatrali e di un’ottantina di messe in scena di lirica, contano sì le dodici ore di Ignorabimus, i cinquanta cambi di scena de I dialoghi delle carmelitane, i cinquecento personaggi e i sessanta attori de “Gli ultimi giorni dell’umanità”, la follia inafferrabile degli enigmi matematici di Infinities proiettati in cinque spettacoli simultanei, la traduzione scenica di testi letterari giganteschi di Dostoevskij, James e Gadda, i cinque spettacoli montati in contemporanea per le Olimpiadi di Torino. Ma contano anche il suo senso della misura, l’asciuttezza, la cura minuziosa dello spazio, la capacità di porsi in sintonia con un contesto, di lavorare in sottrazione, d’interrogarsi sulla semplicità. Sembra essere questa la prospettiva di Nel bosco degli spiriti, fiaba africana creata per il nuovo teatro costruito da Brunello Cucinelli nel borgo umbro di Solomeo, non lontano da Santa Cristina, il cui centro teatrale e’ produttore esecutivo del progetto.

Perché inaugurarlo con uno spettacolo di soggetto africano?
«L’autore del testo è Cesare Mazzonis, con cui all’inizio ho parlato affinché elaborasse alcune ipotesi di racconto. Quanto a Cucinelli, ci ha lasciato completamente liberi. E’ stato Mazzonis a propormi di unire in una sola storia due romanzi brevi dello scrittore nigeriano Amos Tutuola, Il bevitore di vino di palma e La mia vita nel bosco degli spiriti. Vi si narra una sorta di odissea orfica dove un impenitente bevitore va nel regno dei morti per recuperare il suo defunto spillatore di vino di palma. Il viaggio è avventuroso, esilarante e pieno di minacce. L’idea mi è sembrata ottima per svariati motivi. Innanzitutto mi premeva evitare di presentare uno spettacolo barocco per il battesimo di un teatro molto “all’italiana”, che riecheggia il Teatro di Sabbioneta: sarebbe stato pedante e accademico. In secondo luogo trovo interessante che lo spunto della rappresentazione sia una specie di mito di Orfeo, con l’esito di una contaminazione tra il soggetto africano e un antecedente musicale rinascimentale. Inoltre fin dal principio ho pensato di coinvolgere nel progetto Ludovico Einaudi, compositore che ha lavorato molto con la musica africana. E poi la struttura di questo mito picaresco e strampalato, scandito a tappe, come ogni fiaba, consente bene di utilizzare la musica e la danza, episodi mimati gestualmente o recitati. Infine mi è sembrato che quel tema, quel mondo, quello stile – un naif nigeriano che scrive in un inglese tutto suo – potessero tradursi efficacemente in un pezzo di teatro musicale, dinamico nella miscela dei linguaggi e accessibile al pubblico non necessariamente tutto italiano che assisterà allo spettacolo».

Cosa ti affascina in quel genere di narrazione che è la fiaba?
«Mi ha sempre attratto la possibilità che dà la fiaba di superare stereotipi teatrali e rigide convenzioni drammaturgiche. E poi mi piace la libertà del mondo fantastico che qui, ne “Il bosco degli spiriti”, si esprime con lievità, senza rutilanti effetti speciali. Il protagonista, l’attore Fausto Russo Alesi, che abbiamo definito “il lettore”, è un uomo che legge un racconto e s’immedesima nella trama, immaginando di vedere rappresentato quanto sta leggendo. A volte dalla sua lettura emergono interlocutori che indossano maschere curiose, un po’ espressioniste, color carne e con occhi di vetro. A volte le figure e i personaggi menzionati vengono fuori da uno schermo».

Dunque c’è uno schermo? Quale sarà l’ambientazione scenografica?
«Margherita Palli ha realizzato un set molto semplice, affinché il palcoscenico possa vedersi nella sua interezza. Oltre ai musicisti coi loro strumenti, la scena accoglie in effetti un grande schermo sul quale sarà proiettato il testo di Mazzonis, ora in italiano ora in inglese. Ma ancor più che proiettato apparirà disegnato, come un fumetto che ci introduce nello spirito sofisticatamente naif del testo scritto da Tutuola, non perché l’autore sia sofisticato, ma perché lo è, inevitabilmente, la nostra prospettiva di lettori europei. Le parole scorrono in una calligrafia infantile, e al flusso s’alternano figure evocate dal racconto. Quando per esempio si dice: “e incontrarono un bambino”, appare disegnata la faccia di un bambino, e subito dopo emerge dallo schermo l’attore. Si tratta in pratica di uno schermo animato. Il registro narrativo è quello di una fiaba buffamente naif, piena di stramberie e seguita con sguardo ludico. Vorrei che tutto vivesse in scena con estrema leggerezza, senza richiami al fantasy tecnologico oggi tanto in voga. Perché è proprio lo spirito di Solomeo a richiedere il recupero di una cultura semplice”.

Semplice ma non esplicitamente africana?
«Dallo spettacolo è escluso ogni folclore. Niente di antropologico, né di etnico, né tanto meno di esotico. Piuttosto un candore utopico. Un po’ come in Cucinelli, che col teatro di Solomeo dà corpo a un suo grande sogno. C’è in lui un misto di accortezza e ingenuità».

Anche i costumi ci parleranno di una fiaba stramba?
«Non ci saranno eccentricità né eccessi barocchi. Gli attori, tutti italiani (oltre a Russo Alesi sono Riccardo Bini, Vinicio Marchioni, Fabrizio Nevola e Marco Vergani), saranno vestiti come persone del nostro tempo, normale gente di oggi. E i bianchi resteranno tali ai nostri occhi. Essendoci in scena una cantante nera e musicisti africani che suonano strumenti musicali del Mali, sarebbe triviale e offensivo truccare da neri gli attori che recitano insieme a loro. Così come sarebbe volgare vestirli da pezzenti, sia per il rispetto che meritano gli artisti neri, sia perché Cucinelli lavora nel mondo della moda. Allo stesso modo è sbagliato far confezionare i costumi a uno stilista: non ha senso farlo proprio a casa di uno stilista. Abbiamo scelto quindi abiti essenziali e quotidiani».

Qual è, secondo te, il significato centrale di questa misteriosa parabola africana? C’è una metafora? Un obiettivo finale?
«Sono emblematiche le ultime battute del testo. Il protagonista compie un viaggio per ritrovare il suo spillatore di vino di palma, il quale è morto. Una volta che lo ha raggiunto, il morto gli dice che non potrà tornare a vivere e a spillare di nuovo il vino per lui, esprimendo una saggezza postuma molto bella. Poi gli dà un uovo miracoloso, al quale si può chiedere qualsiasi prodigio. E percorrendo a ritroso il cammino che dal regno dei morti giunge a casa sua, il protagonista vede venirgli incontro falangi di defunti, anche bambini, in viaggio verso quella dimensione da cui è riuscito ad allontanarsi. A casa trova la sua gente disperata per la siccità, e invece di domandare all’uovo di avere ancora vino di palma invoca pioggia per il suo popolo. E’ forse questo il senso dell’itinerario: quest’uscita dalla situazione mitologica in nome di un passaggio alla realtà, un riferimento a qualcosa di riconoscibile e a noi vicino tramite il tema della pioggia e della fertilità».

Un confronto coi grandi problemi del nostro tempo? Uno slittamento dal mito alla cronaca?
«Parlare di cronaca è eccessivo. Nello spettacolo ci saranno solo accenni, lievissime allusioni. “Nel bosco degli spiriti” è un viaggio di andata e ritorno. Il novanta per cento della narrazione riguarda l’andata. Ci si dirige verso l’ignoto, si va alla ricerca di un morto per parlargli. Questa, evidentemente, è cosa non vera. Nel ritorno, che occupa il dieci per cento del racconto, dall’aldilà si va nell’aldiqua. E il fatto che lungo il cammino si incontri una folla di morti diretta nella direzione opposta è quanto meno curioso. A questo punto, nella sintesi del testo realizzata da Mazzonis, si passa dalla storia di un individuo alla storia di tanti».

Sembra un passaggio in sintonia con le idee di Cucinelli, con la sua volontà di impegno sul fronte ecologico e sociale e per la salvaguardia dell’ambiente.
«Abbiamo avuto sempre intenzione di montare un progetto che fosse in qualche modo in rapporto con l’attività di Cucinelli e la sua visione del mondo. Ma questo, nello spettacolo, deve esprimersi solo in maniera mediata, obliqua e trasversale. Non ci sarà niente di dimostrativo».

Nel panorama della musica del nostro tempo, Ludovico Einaudi spicca come una splendente anomalia. Nato nel ’55 in una famiglia che ha segnato la storia e la cultura italiana (è figlio dell’editore Giulio Einaudi e nipote del Presidente della Repubblica Luigi), conta su radici musicali “colte”, essendosi formato al Conservatorio di Milano e come assistente di Luciano Berio, che considera il suo più autentico maestro. Ma in Einaudi c’è dell’altro: l’indagine della musica popolare in senso lato, i contatti ravvicinati con la musica africana, la fervida curiosità per il folclore; in più l’interesse per il rock e il pop, al di là di frontiere, snobismi o pregiudizi. Difficile pensarlo o collocarlo all’interno di una scuola. Non è minimalista e non è “ambient”, a dispetto delle forzature di alcuni critici. Né condivide l’approssimazione orientalistica di tanta musica New Age. È un compositore contemporaneo che non ha mai fatto parte delle ben note fazioni criptiche e ha evitato le scelte di linguaggio cerebrali ed élitarie. Ama la melodia, la scorrevolezza delle note, la linea morbida del canto “all’italiana” e l’abbraccio del tessuto sonoro, come testimoniano i suoi avvolgenti brani al pianoforte.
I contemporanei “facili” e al tempo stesso di estrazione “colta” sono di solito citazionisti, come i cosiddetti autori «i neo-romantici», molto di moda qualche anno fa nell’ambito del teatro musicale. Ma Einaudi non lo è, nel senso che evita la citazione o l’ammiccamento a celebri opere preesistenti. Ha cercato un percorso originale che non prescindesse da un’espressività immediata e contagiosa, senza però cadere nel più scontato semplicismo. Il suo gioco comunicativo è il risultato di vari elementi: la sua ricerca tutt’altro che superficiale, un interesse attualissimo per il mix di culture musicali, una coscienza della modernità globale sorretta dalla consapevolezza del patrimonio classico. Einaudi è leggero con profondità, in senso calviniano, ed è un autore fertile di idee nel suo appassionato itinerario attraverso le differenze culturali.
Da questo e altro nasce il suo progetto musicale per “Nel bosco degli spiriti”, «col testo visionario di Amos Tutuola che pare ricalcare a suo modo il mito di Orfeo, e ha l’andamento funambolico di un viaggio molto africano, legato alla magia e alla mitologia. Ma che possiede anche una spiccata valenza etica: affiora nella scena finale, quando il protagonista, tornato a casa dopo innumerevoli avventure, usa il suo uovo prodigioso per chiamare la pioggia e in tal modo far del bene alla sua gente dopo una carestia. Mentre all’inizio si preoccupava solo del suo vino di palma, in questo passaggio conclusivo si riscatta compiendo un gesto importante per la collettività».

Avevi già lavorato con Luca Ronconi?
«Lo conosco da tempo. Ronconi firmò la regia di “Opera” di Berio quando io ero assistente del compositore, molti anni fa. Ho anche preparato gli attori del laboratorio di Ronconi per un altro lavoro di Berio, “Aronne”, partitura per dieci voci. Ora, con “Nel bosco degli spiriti”, Luca ha pensato a uno spettacolo di teatro musicale che contenesse danza e canto, oltre alla musica e al teatro. E mi ha chiesto di collaborare perché il punto di partenza è un testo africano, e io ho lavorato molto con la musica africana».

Puoi raccontarci quest’esperienza?
«Mi ha attratto moltissimo il Mali, dove sono stato due volte. Ho collaborato con Ballakè Sissoko, grande maestro della kora, una specie di arpa, facendo con lui un disco e un tour in Europa e negli Stati Uniti, e poi anche con Toumani Diabate, altro virtuoso della kora. Al sud del Mali la musica è diversa da quella del nord, che è vicinissima al blues delle origini, quello del Mississipi. Anche la musica del meridione è affascinante, un po’ più melodica, con echi caraibici e di musiche orientali. È fatta con la kora e vari strumenti a corde, e con strumenti a percussione come il balafon, “le piano africaine”, considerato l’antenato del pianoforte. Vi si percepiscono le radici di musiche migrate nel mondo attraverso il commercio e la schiavitù, e vi si ritrovano davvero le basi della nostra cultura, che emerge come depurata da sovrapposizioni e distorsioni successive. I musicisti africani che ho riunito per “Nel bosco degli spiriti” saranno tutti del Mali: la cantante Rokia Traorè, Ballakè Sissoko alla kora, Moriba Koita che suona lo ngoni, un chitarrino a tre corde, e Lamin Diabatè alle percussioni. Del gruppo fanno parte anche due musicisti tedeschi, i fratelli Robert e Ronald Lippok: uno fa musica elettronica, l’altro suona le percussioni. In più ci sarò io al pianoforte».

Per te conta molto l’ispirazione della musicale popolare?
«Moltissimo. Grazie a questo tipo di ricerca sono riuscito a riappropriarmi di una possibilità preziosa della musica: il suo potere di comunicazione con il pubblico. Il nutrimento, la linfa e il sangue giungono da lì. Poi, certo, bisogna avere la capacità di elaborare la musica che corre nelle strade. D’altra parte attingere al folclore è un’operazione che tutti i compositori, da Mozart a Stravinskij, hanno sempre fatto. Ma nel Novecento si è approdati a un periodo durante il quale i musicisti si sono chiusi in una torre d’avorio, con esiti di inaridimento e mancanza di dialogo con l’esterno. Nel frattempo veniva creata musica bella e ricca: i Beatles sono stati un gruppo pop che ha assorbito influssi classici e ha saputo condensare meglio di chiunque altro una certa epoca, proprio mentre la musica contemporanea si stava prosciugando e intrappolando in un vicolo cieco».

Nello spettacolo per il nuovo teatro di Solomeo lascerete un margine all’improvvisazione?
«Soltanto in parte. Ho stabilito una sorta di canovaccio da sviluppare nelle prove. Per ogni scena c’è un’idea, e ogni volta sono varie le possibilità. Lascio gli ingredienti liberi per poterli integrare con la regia di Ronconi e farli evolvere ulteriormente lungo il lavoro di montaggio sul posto. Mi piace la prospettiva di attraversare una dimensione esplorativa. In questo nostro “laboratorio” potremmo scoprire che una musica concepita per una scena può funzionare meglio con un’altra. Vorrei insomma che certe strade restassero aperte, anche perché i musicisti africani si tramandano il loro patrimonio solo per tradizione orale, e non si può costringerli troppo in una gabbia chiusa. Inoltre, secondo la mia esperienza, sono artisti che rendono di più se non hanno vincoli. Man mano che le prove si assottigliano e ci si avvicina al debutto si arriverà a alla definizione dello spettacolo».

Ci saranno anche strumenti creati apposta per questo progetto?
«Sì. Oltre agli strumenti etnici e al pianoforte, ne useremo di inventati per produrre rumori evocati dal testo, dai fischi terribili al suono delle conchiglie: barili, pezzi di bicicletta, corde di un pianoforte, ventilatori, fischietti, incudini, martelli…».

Come sfuggire alla prevedibilità di uno spettacolo esplicitamente “etnico”?
«Evitando quadretti africani, anche in base alla natura pasticciata del testo di Tutuola: è stato scritto in inglese e vi abbondano riferimenti di varia natura. Questa sua impurità stimola la possibilità di intrecciare soluzioni e linguaggi. In certi momenti ci sarà solo musica, in altri la musica sarà abbinata alla danza, con gli interventi del danzatore del Burkina Faso Ibrahim Ouattara, in altri si mescoleranno il canto e la danza, in altri ancora ci sarà solo recitazione… Miriamo a un progetto trasversale sia nel senso delle culture e dei codici, sia in quello dei tempi storici. Un assolo di kora ha un suono molto africano, ma può determinare qualcosa di speciale nel connubio con la musica elettronica. Il nostro sarà un teatro musicale libero e inventato: un esperimento».

È vero che leggendo il testo di Tutuola hai pensato ai griot, i cantastorie dell’Africa Occidentale? Quest’idea può diventare un punto di riferimento per modellare il canto?
«Certo. Rokia Traorè avrà la funzione di una cantastorie che commenta le varie situazioni: il momento della partenza, quello del ritorno, la pioggia, il finale… Vorrei che i testi di queste ballate, che ho composto per lei, fossero antichi. Perciò le ho chiesto di trovare testi della sua tradizione: uno che narri appunto la partenza, un altro sul ritorno, un altro che riguardi la festa e così via».

Questo tipo di teatro musicale ha qualche precedente nella tua storia di compositore?
«In passato ho fatto alcuni lavori legati alla danza. Mi ha sempre interessato il teatro musicale, ma mai quello generato dal mondo istituzionale dei teatri d’opera, troppo legato a una storia dalla quale mi sento distante. Parallelamente mi hanno incuriosito certe forme originali di teatro musicale degli anni Settanta, come “Einstein on The Beach”, con le musiche di Philip Glass e la regia di Bob Wilson. Progetti estranei alla convenzionale tradizione operistica».

Nella musica di “Nel bosco degli spiriti” ci saranno spunti colti da tue composizioni del passato?
«Mi aiuta l’esperienza fatta con la musica africana e con l’album “Diario Mali”. Ma mentre lì eravamo due musicisti, Ballakè Sissoko e io, qui l’impresa è più articolata, con tante persone coinvolte e l’apporto dell’elettronica. Per me è una cosa molto nuova: prima d’ora non avevo mai messo insieme musica elettronica e musicisti africani».

Che cosa in particolare ti ha attratto nella possibilità di creare la parte musicale di “Nel bosco degli spiriti”?
«Oltre alla prospettiva di collaborare con un regista del livello di Luca Ronconi, mi ha conquistato l’idea di uno spettacolo con caratteristiche di produzione “leggere” e da sviluppare liberamente, al di fuori di contesti istituzionali. Inoltre mi piace molto Brunello Cucinelli: ammiro il suo entusiasmo, la sua apertura, la sua entusiastica volontà di edificare un nuovo teatro. Mi sembra bellissimo poter rendere omaggio a questa nascita con la mia musica».


157 Responses

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