20 Ottobre 2017

2012 / Mistero Doloroso

Lo spettacolo è la messa in scena dall’omonimo racconto di Anna Maria Ortese e narra l’amore impossibile tra la giovane e umile Florida e il Principe Cirillo in una Napoli animata, bella e disperata, in cui dominano le differenze di casta e in cui si muovono personaggi diversi.
Unica protagonista è Galatea Ranzi, che in scena dà vita e voce a tutti i personaggi della storia.

Lo spettacolo è prodotto dal Teatro Biondo Stabile di Palermo in collaborazione con il Centro Teatrale Santacristina


Locandina/Programma
Palermo, Teatro Bellini – 18 aprile/13 maggio 2012

Mistero doloroso
di Anna Maria Ortese

regia Luca Ronconi

con GalateRanzi

luci Pietro Sperduti
Assistente alla regia Luca Bargagna
Direttore di scena Carlo Oriani Ambrosini
Foto di scena Luigi Laselva

Per la scena si ringrazia Tiziano Santi

Il costume della Signora Galatea Ranzi è stato realizzato dalla Sartoria The One s.r.l.
Produzione Teatro Biondo Stabile di Palermo in collaborazione con Centro Teatrale Santacristina

Si ringrazia il Comune di Corciano (Pg) e il Teatro San Carlo di Napoli

Materiali
Il testo misterioso di Nadia FusiniNote di regiaL’eterno e l’attimo di Goffredo Fofi

Oltre che doloroso, è misterioso questo racconto che Luca Ronconi porta in scena, e Galatea Ranzi impersona.
Fu ritrovato, dopo la sua morte, tra le paperasses che la scrittrice aveva conservato a Rapallo, la cittadina ligure dove Anna Maria Ortese era venuta a vivere nel 1975 insieme alla sorella Maria, in fuga da Roma. Tra le varie altre scartoffie, emersero ventisette fogli sciolti, dattiloscritti, numerati a mano al centro del margine inferiore, con brevi e rare correzioni a mano scritte fitte fitte nel poco spazio bianco restante. Senza data.
Un accenno al misterioso testo lo si trova in una lettera a Sergio Pautasso in data 19 luglio 1971, dove per l’ appunto la scrittrice parla di una storia ambientata a Napoli nel primo ottocento, su uno sfondo storico, con personaggi che definisce ‘sottili, non di tutti i giorni’. “Così i dialoghi”, aggiunge. Dà anche un nome al racconto, che chiama La casa del pozzo, mentre sui ventisetti fogli ritrovati ha vergato di suo pugno in testa il titolo Mistero doloroso, e in calce alla prima pagina due varianti: Florì, e Il Figlio del Re.
In una lettera inviata a Natalia Ginzburg il 30 maggio 1980 torna a parlare di un racconto lungo di “ambientazione napoletana, in tempi borbonici”, che cita sempre con il titolo la casa del pozzo, che sembra a questo punto avere vinto sugli altri. “Una storia un po’ magica di Napoli già toccata dai Francesi, ma ancora borbonica.”
Come che sia, il testo misterioso rimane inedito, ed uscirà postumo nella Piccola Biblioteca Adelphi nel 2010 col titolo vergato a mano in testa ai fogli Mistero Doloroso; e ancora prima nel 2005, sempre per le edizioni Adelphi, nel secondo volume dei Romanzi di Anna Maria Ortese, come Appendice nelle Note ai testi de Il Cardillo addolorato, a cura di Monica Farnetti, una lettrice forte e profonda della Ortese, la quale lì lo colloca per dimostrarci come il racconto trapassi in quel capolavoro che è Il Cardillo addolorato, del 1993, di cui potrebbe essere l’ incunabolo. Li lega se non altro il tema, per l’ appunto, del mistero del dolore.
Il sostantivo dolore compare innumerevoli volte nel racconto, e innumerevoli volte l’ aggettivo doloroso; e spesso sia l’ aggettivo che il sostantivo si accompagnano al termine bellezza. Quasi sempre la bellezza è dolorosa e il dolore è bello. Persino la bellezza delle rose ha un effetto doloroso, persino l’ attenzione a un volto, a una scena, a un paesaggio, producono dolore. Il dolore può essere “antico”, “quieto”, addirittura “dolcissimo”. Spesso è “antico e indicibile”, altre volte “fondo, nuovo, turchino come il cielo della mattina”. E’ sempre “un dolore caro”, “un dolore che non se ne andava”, familiare. Un dolore a cui ci si abitua, che se non c’ è manca, e per ventura o per sventura che sia, c’ è sempre a Napoli, è comune, è generale, interclassista, lo si ritrova dovunque, tra i ricchi e tra i poveri, tra i plebei e gli aristocratici. E non è un dolore che “ispira ribellione”; anzi, è “un dolore che esalta”. E’ un dolore che costituisce lo sfondo teatrale dell’ esistenza di tutti e di ciascuno, principi e servi.
Per la piccola Florida De Gourriex, altrimenti detta Florì e per il principe Cirillo, o Cirino di Borbone, il “mistero doloroso” s’ incarna nell’ amore impossibile. Tra la figlia della sarta, orfana di padre e il nipote del re, e forse erede al trono di Spagna, a prima vista scatta un’ attrazione magnetica che sorprende loro stessi, e li spinge storditi, stupefatti l’ uno verso l’ altra, in aperta violazione del principio di casta, che divide come fossero due razze le due famiglie. Impensabile come tra bianco e nero nei romanzi di Faulkner l’ incrocio tra la plebea e il discendente dei re. Enorme l’ orrore della contaminazione sociale, spaventoso come un tabù.
C’ è un momento però in cui anche se come in sogno i due si avvicinano e tra il principe e la povera le parti sembrano scambiarsi. Ed è quando Cirino va da Florì, lì dove lei impera, nella sartoria, e Florì avanza verso di lui come una regina nel suo abito rosa pallido, con quel fazzoletto rosso al petto, su cui non è ricamata nessuna lettera scarlatta, ma brilla la luce pura della giovinezza innocente, che proprio nel momento in cui conosce l’ amore, conosce il peccato e il dolore.
Il momento è intenso, numinoso; nulla accade di reale, poche le parole pronunciate, pochi i gesti, minimo il contatto. Ma un’ intesa si realizza antecedente all’ incontro, alla loro stessa nascita, incurante della diversità immensa del destino. Il principe si perde nella visione dei piedi di lei scalzi, ma non perché ceda a una erotica attrazione; piuttosto, perché quella indigenza gli si impone come una realtà sconosciuta. Di chi avanza scalzo nella vita, puro corpo naturale non protetto da simboli, corone, palazzi, broccati, lui non sa nulla. E’ ignorante. Di quel mistero creaturale non ha le chiavi.
Ed è ai suoi piedi che il principe si inchina nell’ ultimo incontro, più carnale, dove Florì sta lei seduta come in trono sulla sedia di broccato e a lui inginocchiato passa la mano tra i capelli. Mentre Cirino la inonda di care, tenere parole, e ripete amore mio, core mio, Florinda mia dolce, ben sapendo che l’ ha già perduta… E lei è muta, e assente.
Il mistero dell’ amore li ha sfiorati, e li ha uniti in un breve delirio, passeggero. A dividerli è la realtà, e la realtà a Napoli, “verso la fine del ‘700”, è che “il denaro era molto importante: e la famiglia intorno a quello si moveva.” E per questo motivo Cirillo di Borbone sposerà chi non ama e non lo attrae, ovvero Carolina Durante di Roccagioiosa. Neppure la principessa Alessandrina Minutolo può concedersi, che pure per motivi dinastici gli sarebbe adatta.
Se Florì non può amare Cirino perché è principe e Cirino non può amare Florì perché è povera, Cirino non può amare neppure la contessa o la principessa che per rango gli spettano. Ecco il mistero doloroso dell’ amore. Ecco il mistero glorioso del rosario che unisce tutti: proprio qui, nel dolore le classi si mescolano, e si mischiano le razze dei padroni e degli schiavi della terra. E scopriamo che non d’ amore si muore, in questa Napoli borbonica, in questo racconto psichedelico: si muore d’ irrealtà – che è il grande tema di tutta la narrativa di Anna Maria Ortese. Si muore per il paradosso di un’ esistenza che viviamo, ma non è reale. Viviamo, ma non siamo reali. Non è paradossale?
Sappiamo che Anna Maria Ortese conosceva e amava la letteratura inglese e americana. Ha nel cuore Shakespeare, Hawthorne e Poe. In particolare, l’ eroina di questo racconto, Florì, ha qualcosa della luce trascendentale e trascendentalista, che irradia dalle protagoniste dei racconti sovrannaturali di Poe, di Hawthorne. Ha qualcosa di Pearl, la figlia della donna che nel romanzo di Hawthorne porta la lettera scarlatta. Ha qualcosa di Berenice, di Leonora. E perché no? Ha qualcosa delle eroine dei drammi romanzeschi shakespeariani; potrebbe essere Perdita, addirittura una Miranda scalza… C’ è qualcosa in lei di Ariele.
Ma soprattutto è nella filosofia della composizione su cui poggia, che il racconto eredita quell’ idea di Poe di una bellezza che si sposa alla voluttà del dolore. Non c’ è niente che commuova di più, non c’ è niente di più teatrale del dolore. Lo si può forse negare? Questo significa che il dolore non sia vero? No, niente affatto. E’ vero ed è bello, il dolore. E tanto più intenso, elevato, puro è il piacere che deriva dalla sua contemplazione. E’ enorme il pathos che irradia dai personaggi votati allo scacco della vita: da Florì che sparisce in fondo al pozzo, da sua madre Ferrantina, o Fertì, forte come il ferro che ha nel nome, nel sopportare i lutti, dal principe e dalle dame altolocate, tutti stretti in esistenze che non possono vivere; esistenze che sprofondano in incomprensioni mistiche, in lentezze abissali, in tempi lunghi, morti.
Volutamente Anna Maria Ortese sceglie una sintassi arcaica, ellittica, sospesa, un linguaggio ricercato, sonorità a volte liriche e altre volte aspre, quasi primitive, ritmi lenti pur nella forma breve del racconto, che prende via via sempre di più l’ andamento della fiaba. Una fiaba triste, una fiaba noir, senza happy ending, che procede verso un finale che è un’ eclissi: Florì sparisce. Novella Persefone, sprofonda nel pozzo lasciando la madre come Demetra sola sulla terra, mentre chissà, in fondo al pozzo l’ accoglie come una regina il re dell’ Ade.

Non è la prima volta che mi ostino a trasferire opere letterarie, cioè destinate alla solitudine della lettura, dalla pagina alla messa in scena. Quando l’ho fatto, fosse Gadda, Dostoevskij, Krauss, uno scritto giornalistico od epistolare, la stessa Ortese, ho sempre cercato di non far diventare questi testi dei drammi, ma di mantenere ogni volta uno specifico, ossia di cercare di dare corpo alla drammaturgia insita nei testi.
Quando ho letto il racconto Mistero doloroso, ho subito pensato ad una scrittura che richiede l’oralità, non intesa come narrazione di una storia o di una avvenimento nella sua linearità, ma come strumento capace di riflettere tutte le infinite possibilità che un avvenimento suscita nella percezione dei vari personaggi.
Il racconto è una storia d’amore, ambientata, come Il cardillo addolorato, nella Napoli borbonica di fine Settecento: è una storia d’amore, al contempo grandissima e, ortesianamente, minima perché non si realizza mai, tra una bambina con pochissima voce e molto povera e un principe borbonico di qualche anno più grande, che, nonostante l’età, già si sente vecchio.
È Galatea Ranzi, da sola in scena, a dare vita, voce e anima contemporaneamente a tutti i personaggi: una tredicenne quasi afasica, una donna matura, una nobile ventiseienne, che in qualche momento è anche il riflesso del giovane principe. Ciò fa emergere la dimensione drammaturgica del testo attraverso non veri e propri personaggi, ma evocazioni, presenze che si materializzano in scena, brandelli di una memoria passata.
La fantasmaticità del reale è il nucleo poetico che muove la Ortese: come suggerisce Monica Farnetti nelle note al testo, la scrittrice usa i passati remoti per indicare le azioni dei personaggi, ma mai per parlare di ciò che si svolge nel loro intimo, invitandoci così a leggere il dentro dei personaggi dal sintomo, lasciandoci immaginare continuamente la storia non come narrazione di fatti reali, ma come suggestione di fatti poetici.
Lo spettacolo si svolge al centro della platea e non in palcoscenico, proprio perché non si tratta di una narrazione “teatral-televisiva”, ma di una forma di teatro che si aggira tra la possibilità di rappresentazione e la memoria letteraria. Come sempre, mi piace immaginare che lo spettatore di teatro possa avere le stessa libertà conferita al lettore di fronte al libro e possa utilizzare il materiale letterario per farsi anche un po’ da solo lo spettacolo.
La vicinanza dell’attrice al pubblico, che non è frontale, ma la circonda, consente ad ogni spettatore di sentirsi destinatario, in quanto singolo e non come gruppo, della comunicazione man mano che il racconto si snoda.
L’azione, prima circoscritta all’agglomerato di specchiere, improvvisamente si allarga a tutto il perimetro della scena e il pubblico, fino a quel momento invitato a guardare dal buco della serratura di una porta di una modesta casa, diventa adesso il destinatario diretto, esplicito e dichiarato di quanto sta succedendo.
Questo lavoro di trasferimento del testo in palcoscenico assomiglia ad un virtuale adattamento cinematografico: in teatro sono le parole che creano l’immagine, qui invece le parole devono suscitare le immagini nella mente del pubblico ed per questo che, come nel cinema, si ricorre continuamente a zoomate, a spostamenti di inquadratura e cambi di obiettivo.
Il Mistero doloroso di Anna Maria Ortese, ritrovato nelle sue carte e ristampato da Adelphi, è un racconto che prelude allo splendore del Cardillo addolorato, per l’ambientazione napoletana – nel secolo che si volle dei lumi – e per la libertà dai presunti obblighi del romanzo – cui la Ortese ha voluto sempre contravvenire. Storia d’amore, storia d’Amore; storia di mutazioni, di realtà oltre la Storia, che la Storia nasconde. È stato un grande merito delle edizioni Adelphi avere imposto negli anni Ottanta l’opera di Anna Maria Ortese all’attenzione di una cultura distratta, maschilista, prevenuta nei confronti di una letteratura che osasse essere anche pensiero, anche – diciamo pure la parola – religione, e cioè riflessione sulle cose ultime. Bensì (questo era il segreto della Ortese) a partire dall’osservazione quotidiana intensissimamente partecipata dello splendore e del dolore dell’esistenza, di tutte le creature e non solo degli uomini, in un gioco meravigliosamente ardito di mutazioni, scambi, aperture. Ci voleva forse la fine di un’epoca di illusioni progressiste e scientiste per farci apprezzare come meritava questo grande personaggio delle lettere e del pensiero italiani, così come un decennio prima lo strisciante, conturbante timore che la Storia fosse sempre stata nemica del bene (“uno scandalo che dura diecimila anni”) aveva fatto del grande romanzo morantiano un best-seller anche presso la generazione che più ingenuamente di tutte, forse, aveva creduto nella facile vittoria delle rivoluzioni sociali, portatrici di “domani che cantano”. Questi domani, invece, gemevano delle sofferenze di sempre, quelle degli umili e delle vittime della Storia – e della Cultura, della Civiltà. Animali compresi.
Forse fu più sconsolata la visione del passato e del futuro che ebbe la Morante, più ancorata, sé malgrado, alla coscienza e alla concretezza dei limiti dell’umano; forse fu più libera e disincarnata la riflessione della Ortese, che in uno dei saggi o articoli o lettere raccolti da Monica Farnetti in Da Moby Dick all’Orsa Bianca, può guardare alla Morante come a una grande e a una sorella, ma dicendo che la vita di Elsa è stata “come (quasi) negazione o rovesciamento di quell’ordine che le era apparso all’inizio”, l’ordine celeste. “Proprio per questo avvertivo quella sua vita come tragica e penosa (…) inadeguata a quello. (…) Elsa ha creduto nella inesistenza del miraggio, ha visto terra dove non era. Questa per me la sua tragedia. Un’anima perduta.”
Il giudizio è terribile. E sappiamo che la Morante (si legga per convincersene l’ultimo capolavoro Aracoeli) ha tentato il suicidio ed è morta perché voleva morire, accostandosi coscientemente alla “porta del vuoto” delusa dal mondo: “Nessuna Rivelazione”, “Nessun peccato,” “E nessuna grazia speciale.” Non c’è senso nel vivere, ed “è tutto uno scherzo”. La citazione che apre La serata a Colono, “parodia” e capolavoro teatrale, è presa da un’altra donna, un altro poeta, la Cvetáeva, e dice il non-senso d’ogni percorso: “O stella irsuta che corri senza punto d’arrivo / da un terribile punto di partenza che non esiste.”
La Ortese pareva, al primo impatto o ad avvicinarsi a lei nel modo più superficiale, una donna frustrata, nevrotica, con un po’ vittimismo e di acrimonia nei confronti della società e in particolare della società letteraria – che ancora c’era e contava. La Morante pareva, al primo impatto e al secondo, una persona così cosciente di sé e del proprio valore da poter guardare a quel mondo – la società dei potenti e dei loro imitatori e servi e la società letteraria dall’alto, e perfino con disprezzo. Ma la Ortese guardava alla realtà della Storia e alla realtà dello Spiritocon una distanza di cui la Morante era incapace, e sembrava allora che la Ortese si fosse sempre mossa dentro una vita che si librava su quella bassa della materia, che della materia sapeva liberarsi. Ma se, proprio per questo, per questo insolubile dilemma dello stare nella Storia e del subire le pesantezze della Natura anche nostro malgrado, Elsa ci continua a sembrare più vicina e più nostra, di Anna – le chiamo così per il diritto che mi viene da una condivisa amicizia – apprezziamo proprio la capacità di sollevarsi sopra i condizionamenti e le truffe dell’esistenza. Come quando si dichiara tutta dalla parte di Moby Dick (la Natura, o Dio) contro la folle ostinazione di Achab. Come quando racconta la breve vita di Anna Frank. Come quando dice, nel bellissimo intervento sulla Mite di Dostoevskij, che la tragedia del nostro tempo è “l’invasione del mondo – delle persone umane – da parte di infiniti tutori e benefattori, o anche mezzi di comunicazione e di arricchimento della vita. La vita oggi non è mai lasciata sola a se stessa, un tutore buono o cattivo (più spesso buono) sono sempre al suo fianco”. E per “buono” intendeva la recita del bene e non la sostanza del bene.
In conclusione, “l’anima protetta, tutelata, è una disgrazia del nostro secolo”. E che dovremmo dunque dire noi del nostro, noi sopravvissuti al Novecento o noi nati dopo?
Il brano più sorprendente e più lungo della raccolta ortesiana è bensì quello che riguarda la religione e non l’arte – ovvero l’ortesiano fondamento religioso della propria visione dell’arte. Si tratta di Cristo e il tempo, scritto nel 1978 per una rivista di Rapallo, “Ipotesi”, e ignorato da quasi tutti, anche da molti amici della Ortese. È questo il testo che rivela e dice di più sull’autrice:“Credo che non vi sia quasi altro, nei Vangeli, se non la raccomandazione perenne della carità e della sottovalutazione assidua dei doni dell’Altro, degli ordini posti, come contropartita, dall’Altro: cioè il mondo, e Colui cui il mondo appartiene”, e cioè il “Signore attuale di questo mondo”. Il padrone del mondo è colui, possiamo aggiungere, che tentò Gesù dicendogli che tutto avrebbe potuto essere suo, se solo Gesù si fosse messo dalla sua parte.
Nella sua polemica contro il tempo (la storia), “si vive e si combatte per l’attimo”, dice la Ortese, “come sorci. Dov’è l’uomo? Dov’è il segno dell’uomo? Dov’è l’eterno? (…) L’eterno – che era il regno segreto dell’uomo, da cui solo derivavano i suoi regni reali e temporanei, lo stesso futuro – simile a un raggio di luna sul mare pieno di mostri, è sparito. Restano il mare buio, e i mostri. Il cuore dice – e così la mente razionale chiama senza vergogna: Vieni, o Eterno! Vogliamo vivere realmente, rinascere.”
Cito dalla raccolta recente, e non da quella più intensa e coerente perché da Anna voluta e controllata il cui titolo è Corpo celeste, ma potrei citare dai romanzi – Il porto di Toledo, che è il più “terrestre” e il più ombroso, e soprattutto Il cardillo addolorato e soprattutto il suo complemento teorico, Alonso e i visionari. Ed è proprio di Alonso una chiusa che parla del piccolo puma divino che sta al centro della storia (e della Storia). Uno dei personaggi centrali del romanzo, Stella Winter (“stella” e “inverno” al contempo) lo conclude ricordando il personaggio Jimmy Op e la sua lettera a Lincoln sul vero stato del mondo e delle sue creature, anzi del cosmo. In quella lettera Jimmy Op, e Stella lo ripete, diceva del meraviglioso mutante Puma che è anche Cristo che “non visto, verrà”: ”La vita non è mai nelle nostre stanze, ma altrove. Così, chi cercasse il Cucciolo, scruti la notte, nel silenzio del mondo; non lo chiami, se non sottovoce, ma sempre abbia cura di rinnovare l’acqua della sua ciotola triste”.
L’acqua di Dio, aveva scritto Jimmy Op, “carente dovunque si ha sete”. Un’acqua depurata dal “sale” e dalle “minacce di morte”.
È nelle opere del ritiro ligure e della maturità, quando Anna fu più distante dalle preoccupazioni dell’attualità cui il lavoro di giornalista l’aveva costretta (anche se non furono minori le sue quotidiane preoccupazioni di sopravvivenza, sua e della sorella) e che la costringevano però a vedere il mondo e a riflettere sulla solitudine e il dolore dei viventi, che si esprime più intensamente e magnificamente la sua diversità, che è insieme poetica e religiosa. La superiorità (discutibile) che Anna afferma su Elsa è allora quella di una visione più alta perché liberata da quella “pesantezza” che affliggeva Elsa, mai liberata dalla sua sete di vita e dalle pene del corpo e da esse sconfitta. Nella tensione che accomunava le nostre due grandi scrittrici – col tempo ci si renderà sempre più conto della loro grandezza e della loro superiorità sugli altri e le altre di cui furono contemporanee – poesia e religione (o filosofia, ma nel suo significato più pieno) sono la stessa cosa: il confronto col Bello e il confronto col Male, nella ricerca del Vero. L’incorporeità di Anna le dà dei vantaggi sulla difficoltà di Elsa di liberarsi del concreto e del basso, della carne e del sangue, vicine in tanto, ma distanti tra loro come le sante di una volta, le mistiche che giungono a librarsi e le donne che, tragicamente, hanno compreso che “fuori del Limbo, non v’è Eliso”. Il segno e la condanna dell’umana condizione è la cacciata del Paradiso, ma per Anna è stato più facile ravvicinarvisi: nel distacco, obbligatamente nevrotico, dalla Storia.
Goffredo Fofi